LABRECQUE / BARAKAT, Terminal Desert

LABRECQUE / BARAKAT, Terminal Desert

Gli ascoltatori più intrepidi conosceranno forse il belga Paul LaBrecque in quanto esponente di spicco di quel combo freak che alle porte del terzo millennio fece clamore con il nome di Sunburned Hand Of  The Man. Allora, in un periodo particolarmente fervido e frenetico di stranezze folk e derive psichedeliche, la band si affermò con una serie di album decisamente allucinati. L’instancabilità di Paul si manifestava però anche in progetti dalla più marcata fisionomia psych-folk, quelli incisi col moniker Head Of Wantastiquet (da ascoltare almeno lo splendido Dead Seas del 2010).

Sul finire dell’anno scorso, in compagnia di Louise Landes Levi e Bart De Paepe, LaBrecque ci deliziava anche con il raffinato Colloidal Love, lavoro meditativo e dai sapori orientali. Oggi, come nel precedente progetto a nome Crème De Hassan, riprende la collaborazione col musicista tedesco-palestinese Ghazi Barakat (già Pharoah Chromium). Il punto di partenza è il prosieguo del discorso intrapreso in quel Technique & Rite del 2017, di cui questo nuovo Terminal Desert, edito da Karlrecords, restituisce appieno il medesimo spirito. Il riferimento rimane l’atmosfera rituale che vivevamo in “Malesch”, un brano che col suo titolo non solo suggeriva e ci faceva pensare alla magnificenza dei primi Agitation Free, ma enucleava al meglio tutte le coordinate del loro percorso. Barakat e LaBrecque rispolveravano la loro indole più esoterica e pagana, indossando le vesti di elettro-sciamani, di escursionisti enigmatici in cunicoli e vortici sonori che risvegliavano creature e spiriti lontani. Una ritmica cerimoniale martellante dove le distorsioni acide e funamboliche della chitarra si perdevano in spirali irrisolvibili e glissandi elicoidali infiniti. Tra visioni e tormenti da possessione, il punto di forza rimaneva nel timbro arcaico, forte ed acuto, del rauschpfeife, uno strumento ad ancia doppia del XVI sec. molto simile al cromorno.

Quel viaggio intrapreso in Marocco da Peter Michael Hamel e compagni si riproponeva ancora una volta come ideale fonte d’ispirazione. Ben attenti: viaggio da intendere non solo come espansione della coscienza tramite trip cosmici folgoranti, ma anche nella più ampia accezione di interesse musicologico e antropologico. La vocazione elettronica di LaBrecque e Barakat è infatti sublimata in una devozionale osservazione etnografica degli antichi rituali tribali di diverse provenienze geografiche, con quell’enfasi onirica e pulsante che era già stata di un László Hortobágyi. Se già in Crème De Hassan era lampante il collegamento ai Master Musicians Of Jajouka, scoperti e fatti conoscere da Brian Jones nel celebre “Brian Jones Plays With The Pipes Of Pan At Joujouka” del 1971, qui l’omaggio a quegli asceti berberi sufi, suonatori di pifferi e tamburi arcani, si fa ancora più concreto ed esplicito. Non a caso, la prima lunga traccia di Terminal Desert è “Jajouka Pipe Dream, un contrappunto di percussioni ipnotiche che si snodano nei bassi profondi del guembri marocchino e di una chitarra-kraut quanto mai eccentrica. I soffi primordiali, lunghi e minimali del rauschpfeife, che riecheggiano la rhaita marocchina (un oboe), rasentano atmosfere free-jazz e ci fanno ondeggiare come in una danza circolare, durante la quale i cimbali acustici e le darbuka si trasfigurano tremolanti nelle tinte elettroniche dei sintetizzatori. Le danze sfrenate di Crème De Hassan acquistano qui in valore cadenzato, proprio del calore del deserto, lasciandoci dimorare in un temperato magma solare. In “Planet R-101” siamo in puro e maestoso territorio kosmische, riviviamo in questo rombo vorticoso e cupo le amate departures intergalattiche di Ash Ra Tempel e Cosmic Jokers, nelle quali si sviluppa calda e avvolgente la ciclicità dei loop dei piccoli accordi riverberati della chitarra. Poi irrompe improvviso il medesimo flauto secolare, questa volta con un afflato quasi orientale alla Ariel Kalma, con un finale dalla potente progressione spaziale-rituale che ricorda i fiumi oceanici dei Telaio Magnetico. Se di vie per il cosmo si vuole parlare, quella proposta da LaBrecque e Barakat è sicuramente la più affascinante del momento, accanto a quelle aperte da altri meravigliosi esploratori come Bitchin Bajas e Mind Over Mirrors.