La mia lunga estate all’Exchange di Bristol: impressioni sui live di Gareth Sager, Hayward/Haino, JPEGMAFIA

Gareth Sager (Pop Group) + Pete Judge (29 maggio 2019)

Gareth Sager

L’Exchange, che ha ospitato alcuni tra i più infiammati show musicali della storia locale bristoliana, si trasforma per una sera in una specie di teatro con soli posti a sedere. Quando c’è di mezzo qualcuno o qualcosa del Pop Group non sai mai veramente cosa aspettarti, nel male ma soprattutto nel bene. Stavolta i riflettori non sono puntati su Mark Stewart ma su Gareth Sager, che ormai più di un anno fa, con spirito tipicamente popgroupiano, ha interrotto un lungo periodo di silenzio artistico con un album di piano solo, 88 Tuned Dreams (Freaks R Us): non certo cover o collaborazioni ma tutte tracce inedite. I titoli dei pezzi sono molto aggressivi e tendenziosi, molto politici pure, ma il disco è solo strumentale, dunque ci si aspetta che in quest’occasione di rarissimo live (per di più nella sua città…) il buon Gareth ci delizi con parole che lascino il segno in un posto dove se i muri avessero voce, racconterebbero di certe perle verbali dei vari Dälek, Sleaford Mods e compagnia che farebbero chiudere il locale in dieci minuti. I biglietti sono andati via con sospetta lentezza, ero convinto di trovare un sold-out senza speranze alla cassa e invece a poche ore dall’evento resta qualche posticino libero. Mi ci fiondo ben volentieri e per il resto… roll the dice, vediamo che succederà. Ad aprire la serata un esordio locale al piano pure lui, Pete Judge, un personaggio dell’underground che si cimenta in un album di (appunto) piano solo. Le buone idee non mancano, le piacevoli intuizioni pure, ma – sarà l’emozione, la giornata storta, forse una birra di due gradi troppo calda – le incertezze e gli errori macroscopici nell’esecuzione dei pezzi live sono tali che Artù scapperebbe a zampe levate dal terrazzo (Artù è il gatto di un’amica insegnante privata di piano, che sta per ore e ore immobile come una statua ad ascoltare la sua padroncina suonare il piano, ma alla prima stecca di un suo allievo fa un miagolio stridulo tipo “tacci tua!” e se ne va in altre stanze senza più tornare, finché non riconosce il tocco della padrona tornata al piano). Come può venirne fuori un artista inglese da una situazione simile? Ma naturalmente con un tocco di british humour, e una spruzzatina di paraculismo da navigato stand-up comedian: signori, volevo comunicarvi che questo è il mio primo live di piano solo e che so suonare il piano con due mani al 95%. Dai, il 95% non è male per un esordiente, no? È un buon numero, eh? Ok, perdonato, ci hai strappato una risata, però ora vogliamo vedere che ci combina Sager. Durante la pausa tra i due live ci guardiamo tra di noi, non ho mai visto il Pop Group dal vivo, ma ho presente il suo viso da foto sul web, non c’è e siamo vicini al momento della verità. Dopo qualche minuto di ritardo, comincio a pensare che abbia paccato tipo Mark E. Smith rimasto in hotel troppo malaticcio sulla sua carrozzina per quello che si è poi rivelato come l’ultimo ufficiale (non) concerto della storia dei The Fall, proprio a dieci minuti da qui. Invece entra a passo spedito, jeans, maglietta nera e capelli pettinati alla meno peggio, un paio di fogli bianchi con delle note a mano e una bottiglietta d’acqua. Parte come un razzo e si prende solo tre pause, in pratica dei dodici pezzi ne fa tre suite da una quindicina di minuti cadauna. Fluidità impressionante, altro che la sua esecuzione su disco, qui si fatica a riconoscere i brani per più di una trentina di secondi di fila, eppure tutto sta in piedi magnificamente, sembrano proprio delle suite nate e finite così. Ci guardiamo tra di noi del pubblico con stupore, nessuno si aspettava una bomba simile. Un Pop Group che fa un live di “piano solo” da far mandare metà della Erased Tapes-crew a lavare i pavimenti degli autogrill. Alla fine della terza suite, Sager raccoglie i suoi fogli, la bottiglietta d’acqua e sparisce di nuovo nel nulla. Con cortesia e gentilezza, ma fa capire che per stasera, e forse per molto tempo ancora, è tutto. Gli rompiamo talmente le palle a livello sonoro mentre probabilmente sta ordinando una birrozza al banco, che molla tutto e torna per un bis. Poteva non essere il primo pezzo dell’album, cioè quello decisamente più orecchiabile di tutti? E che perfido aveva lasciato fuori dalle tre suite della serata? Il live dell’anno, il live dell’anno!, mi dice dritto in faccia uno sbalordito Fat Paul prima che io apra bocca appena mi vede. E Fat Paul di lavoro organizza live di qualsiasi gruppo per tutta Bristol. A neanche metà anno non succede mai che si sbilanci così, non è neppure carino verso i suoi “assistiti” e verso i suoi “clienti”, se proprio vogliamo dirla tutta, ma lo capiamo benissimo. Quando parla il cuore c’è solo da prendere e da portare a casa.

Charles Hayward & Keiji Haino + EP/64 (19 giugno 2019) 

Charles Hayward & Keiji Haino

Quando c’è da imbattersi in Charles Hayward, ci si domanda sempre se sia una giornata sfortunata o invece fortunatissima. L’ultima volta che si è presentato a Bristol è stato l’inverno scorso, aveva con sé un solo rullante, due bacchette e il suo cellulare, ha guardato l’ora sul suo telefono, lo ha messo in un posto per lui visibile accanto al rullante e ha detto al pubblico: solamente trenta minuti di modern ritual, e ha fatto trenta minuti e zero secondi di rullata tipo ghigliottina che sta per scendere, o di numero del trapezista al circo a miracol mostrar, o semplicemente di ultimi trenta minuti di vita del pianeta Terra perché quella sera stava per arrivare un asteroide proprio sul Bearpit. Ok l’effetto ipnosi, l’effetto trance collettiva, ma vogliamo parlare dell’effetto rottura di coglioni? Stavolta, da pokerista di razza quale dev’essere (basta solo vederlo mentre fa in contemporanea mille facce diverse) si presenta a Bristol con un’altra leggenda vivente underground, l’immarcescibile Haino, che non ho mai capito se sia un uomo o una donna, ma francamente a questi livelli artistici sono dettagli trascurabili. Hanno appena pubblicato un album e ovviamente da due “fulminati” simili non poteva nascere una cosa “classica”, neppure una creatura catalogabile in uno spazio-tempo definito: pare siano dodici tracce composte ed eseguite nel 2016, dal solito sobrio titolo made in Haino che fa A Loss Permitted To Open Its Eyes For But Three Hours And There Glimpsed, Finally In Focus A Mystery That Begs Earnestly, “Ask Me Nothing Now, Once More The Problem Is Yours Alone” (ThirtyThree ThirtyThree Records)… ma chi può dirlo con certezza? Cosa mai potrà essere il concetto di spazio-tempo per un tipo come Hayward, che alterna silenzi di anni con periodi come questo in cui esce con tre album inediti in contemporanea? Pure i due pezzi dell’ep nuovo sono fuori dal tempo, lo stesso Hayward in un’intervista a The Wire dice che sono del 1985… Insomma, quando il nostro passerà a miglior vita (senza rullante? O San Pietro farà passare pure quel sospetto pacco di corriere?) potranno scrivere sulla sua lapide senza alcun problema “Charles Hayward” e basta, zero date di nascita e di morte.

Ad aprire la serata un ensemble che aggiunge improvvisazione esecutiva a improvvisazione di formazione: ecco che solo per stasera il duo EP/64 diventa un trio col sassofonista Ben Vince, che faccia a faccia con la funambolica francesina Dali è pronto ad aprire il fuoco. Siamo in moltissimi all’interno dell’Exchange alla prima nota di sax di Vince e alla prima ugola scannata di Dali, e tra il pubblico molti artisti locali “insospettabili” e direi inaspettati per un live simile, per esempio Batu e Hodge, che fanno tutt’altro genere di musica ma evidentemente riconoscono alla coppia di leggende viventi un valore e un’importanza artistica tali da doversi porre dinanzi a loro come allievi con la massima dedizione. Tutti hanno pagato dodici pound per questa serata, ma c’era in prevendita anche l’opzione a quindici pound, solo uno ha preso questo tipo di biglietto ed è qui proprio ora a spiegarvi il perché sotto l’opzione da quindici pound c’era nel sito una sola postilla ti senti spendaccione?xxx. Io sul momento ho pensato “azz, qua ci scappa la sorpresona, tipo un flyer dell’evento autografato dai due pesi massimi della serata, o una spilla fatta apposta per il loro tour…”, ho cliccato bello pacifico quel tipo di biglietto, dati della mia carta di credito e via, a camminare a petto in fuori in centro come se avessi la maglietta con su scritto “big dick is back in town”. “Ah, sei tu che ha preso quel biglietto?”, mi fa con un sorriso alla cassa d’ingresso Adam Reid, ottimo shakeboardista ed eccellente organizzatore di eventi live tra Bristol e Londra, con clamorosa conoscenza e amore della musica mondiale per l’età che ha. Resto un po’ così sul momento, perché già la frase detta in questo modo mi comunica che sono stato l’unico in prevendita a scegliere quell’opzione di biglietto. No amico, aspetta un attimo… mi stai dicendo che sono stato l’unico coglione (“fucking idiot”, gli dico testualmente mentre rido) a pagare quindici invece che dodici, giusto? Adam scoppia in una fragorosa risata a cui aggiunge solo grazie per l’offerta volontaria! Ok ok, siamo a Bristol, dove le cose normali non succedono… Adam mi conosce bene e un attimo dopo mi mette in mano una foglia da venti pound dicendomi solo mentre mi indica il bar interno vai e prenditi quello che vuoi, per me una bionda media, grazie. Ovviamente torno con zero resto e un conto da pagare che gli servirà un mese di provvigioni di concerti, in dieci minuti chiamo mezza Bristol e facciamo saltare il banco (delle birre), c’ho pensato mezzo secondo a questa opzione, e mi sono mandato affanculo da solo. Torno da Adam con quindici pound di resto e la mia piccola Coca senza ghiaccio da un pound e mezzo, unica àncora di salvezza per noi astemi in tutta l’area bristoliana dell’Old Street. Intanto Dali, la francesina peperina del duo che stasera è un trio, ha appena finito il suo solito training autogeno ed è pronta a farci vedere ancora una volta perché può essere considerata l’unica artista bristoliana paragonabile a Meira Asher. Dali contro due fuochi moltiplica le energie e li domina entrambi, il sax in maniera inaspettata dà anche un tocco dub e dance a molti momenti della performance e, vedendo ondeggiare quasi in trance sia un Batu che un Hodge, realizzo che loro già avevano capito tutto prima ancora che la serata iniziasse.

Bristol, dicevamo, non è certo una città normale, e quindi stasera cosa può succedere in un live di due pesi massimi dell’improvvisazione aperto da un duo locale di loro discepoli? Che il posto è pienissimo per gli EP/64 e si svuota inesorabilmente col passare dei minuti durante l’oretta scarsa di H/H. I musicisti di spicco della scena restano tutti ad assistere al live fino alla fine, e su questo non avevo il minimo dubbio, ma è evidente come pure loro, col massimo dell’attenzione e della devozione per un evento simile, facciano fatica a “entrare” in quella musica. La set-list della serata è pressoché quella del disco e del progetto iniziale, ci sono dei momenti di vera improvvisazione in cui per esempio Haino chiede apertamente a gesti ad Hayward di cantare, anche se quest’ultimo gentilmente declina ogni volta. Il titolo del lavoro è tipicamente made by Haino, e praticamente dice più cose di tutti gli altri suoi frammenti lirici/vocali messi insieme. A riascoltare l’album a mente fredda nei giorni successivi, restano lampi geniali e squarci poco comprensibili, l’uniformità non sta certo di casa in due menti simili. Niente di rivoluzionario, direi niente che si aggiri nelle zone “album of the year”, ma un solido esercizio stilistico per noi che mastichiamo da anni anche quel tipo e modo di fare musica. Sicuramente entrambi sono artisti veri e liberi, come si può evincere anche da un’ottima intervista di Hayward concessa al prode Nazim, che potete trovare tra le innumerevoli perle del sito.

JPEGMAFIA (9 luglio 2019)

JPEGMAFIA

La mattina organo in cattedrale, la sera il più grande cavallo pazzo del rap. La mattina età media degli spettatori 80 anni, la sera 20. La mattina tutti seduti e immobili, per intravedere un minimo bagliore nuovo dalle vetrate e dai rosoni, la sera tutti tarantolati a petto nudo con la maglietta in mano per togliersi il sudore dagli occhi e riuscire a intravedere qualcosa sul palco. È evidente come io riesca sempre a stare dalla parte sbagliata. E ci godo alla grande. Eppure c’è una profonda spiritualità in entrambe le performance. JPEGMAFIA non è una posa o uno snack progettato per grandi numeri e per ogni scaffale di paesello e di metropoli. Ha vissuto e preso decisioni drastiche nella sua vita e a nemmeno trent’anni le può spiegare a molti di noi. A 18 anni è andato volontario nell’esercito americano, ha girato mezzo mondo spesso in posti dove gli americani non erano certo i benvenuti, eppure è riuscito a fare musica con giapponesi per esempio, e nel frattempo ha mangiato pane, droghe e musica di ogni età e provenienza. Il suo nuovo pezzo appena uscito in questo periodo, che preannuncia un nuovo album in arrivo a settembre, è la conferma di un talento strabordante, che cammina sempre spedito come un acrobata sul filo tesissimo e ricco di insidie del campionamento, dell’auto-tune, dell’auto-referenza, ma suona freschissimo e tutto sta in piedi che è una meraviglia. Nei suoi live invece pare che la forza di gravità gli stia decisamente sul cazzo. E che sia la sua principale nemica sul palco. Spesso non riesce a stare fermo e neppure in piedi. Ha detto in una recente intervista che solo da qualche mese riesce a vivere esclusivamente di musica e in questo suo tour europeo cerca di contenere ogni costo. Nessuna persona sul tavolo del merchandising (che non c’è, mortacci sua… volevo comprarmi la cassetta di Veteran che a farla spedire dagli USA costa più di spedizione che di plastica e nastro…), nessun DJ o MC a fargli da spalla sul palco. Ha il suo laptop alle spalle con le basi campionate e ogni pezzo lo fa partire lui mentre prende fiato tra una sfuriata e l’ altra.

JPEGMAFIA

Al terzo brano siamo già tutti belli cotti, sta viaggiando come un pazzo. Peggy se fai “Real Nega” già al secondo brano ci fai secchi tutti così, ma ecco che si ferma un attimo, ci guarda e ci dice: “devo pisciare”. Per un attimo penso: adesso tira fuori l’idrante e piscia sul palco come se non ci fosse un domani… merda! Con tutti i casini burocratici, e non, che hanno dovuto passare i ragazzi dell’Exchange per tenere aperto il locale e ricomprarselo con nuovi soci, questa non ci voleva proprio… invece Peggy si gira un attimo dando le spalle alle prime file stracolme di ventenni bianchi, non si apre i pantaloni, si dà solo una sistematina alla cintura del jeans e in pochi secondi è bello fresco come una rosa. Del resto, non è che se vai in pattuglia in missioni militari, come lui ha fatto per anni, e ti scappa, ti fermi e chiedi un bar per avere una toilette dove poter pisciare…

Ovviamente da questo momento il buon Peggy comincia a lanciarsi sul pubblico e a farsi portare in volo ovunque, e a sbraitare come un ossesso. L’impianto di condizionamento rotto fa pisciare anche tutti noi sotto e attorno a lui, ma sudore. Processione di birre come se fossimo in un bunker anti-atomico e non si potesse berne una per i prossimi mesi. Quando arriva il momento di “Baby I’m Bleeding” non ci vedo più, sia dall’adrenalina che dal sudore sugli occhi. Stiamo saltando tutti come pazzi e lui si arrampica su una cassa da perfetto capobranco. Zompetta pure una ragazza accanto a me, in stampelle con un ginocchio rotto che le impedisce persino di montare sul muretto vicino alle casse, cosa che riuscirà a fare salendo su una sedia che le andiamo a prendere apposta nel bar del locale.

La set-list è molto simile a quella delle altre tappe del tour: tutte tracce da Veteran, in pratica, tranne intro e outro, con un freestyle centrale tipo medley di altri tre-quattro pezzi, riconosco anche frammenti di “Germs”, che mi piace molto. Il palco resta sempre mezzo vuoto, Peggy o è sdraiato per terra che rantola i suoi versi o è in volo sopra le nostre teste. C’è un momento però in cui si ferma, ci fissa e con voce bassa ma decisa annuncia che sta per dedicare questa canzone a quel “beep, beep, fucking beep, and beep (metteteci voi i termini che vi garbano di più…) di Morrissey”. Essì, la base che fa partire è proprio quella del pezzo dal titolo che in italiano sarebbe Non posso proprio più aspettare ancora che Morrissey muoia. Qui salta tutto per aria proprio. Non si può proprio più di così, no way. E infatti siamo agli ultimi due brani, e finiamo seduti per terra, siamo stati dei bravi soldati e il Generale Peggy ci congeda con due tracce intimiste, quasi da decompressione.

A dieci minuti dalla fine del live sono ancora lì, all’uscita che con alcuni amici guardiamo chi sta uscendo dalle prime file, uno spettacolo. Anche qualche insospettabile e nostalgico del vecchio britpop, che cercava di non farsi sgamare confuso nella calca delle prime fila. Sembra abbia diluviato per un’ora là dentro. Siamo stati grandissimi. Peggy sarà stato fiero di noi. Alla prossima, Generale!