KUKANGENDAI, 23/10/2016

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Ravaldino In Monte (FC), Area Sismica.

Nel film “Maze” di Shinya Tsukamoto (“Tetsuo – The Iron Man” lo abbiamo visto tutti, vero?) il protagonista, interpretato dal regista stesso, si risveglia dopo un sonno imprecisato in uno strettissimo cunicolo, quasi impossibilitato a muoversi. Per buona parte della durata del lungometraggio l’azione – se così si può dire – si svolge in questo spazio angusto e soffocante. Ecco, proprio in un labirinto siamo finiti domenica pomeriggio, oppure in un quadro di Escher, dove le direzioni si confondono, e le scale non portano da nessuna parte, in un eterno ritorno: anche la musica di Kukangendai è fatta di elementi minimi (una chitarra rauca che accenna riff che non partono quasi mai, un basso compulsivo e singhiozzante, una batteria zoppa e feroce ), ma lo spazio che crea, seppur ristretto, causa vertigini al folto pubblico accorso all’Area Sismica per la prima ed unica data italiana dei tre.

È il fascino esotico dell’inaudito che ancora una volta esercita il suo magnetico potere sulle nostre orecchie, sempre assetate di nuove musiche: i tre attaccano un groove spastico che di primo acchito, alla mente che cerca paragoni, fa ricordare le convulsioni funk dei Sinistri, le sincopi che le partorirono degli Starfuckers, gli sputi no-wave dei DNA di Arto Lindsay e Ikue Mori, paralisi da avanguardia (o da preistoria, poco importa) e più in generale un’idea ansiogena ed efficacissima di musica modale (i pezzi iniziano con uno sputo di note, due accordi, e da lì azzannano e non si muovono mai, senza mollare la preda, che ha il proprio centro di gravità in un ritmo imprendibile e sempre imprevedibile.

I Kukangendai sono un cubo di Rubik che non si riesce a risolvere. È tutto al posto sbagliato, eppure miracolosamente esatto. Oppure è tutto al posto giusto e siamo noi a non capire. Oppure ancora non bisogna cercare di capire un dannato niente, spegnere l’interruttore e semplicemente lasciarsi portare. Sono i vuoti e gli errori (come il gigante Thelonious Monk, i ragazzi sembrano credere nella loro natura benefica) a dare significato a questi origami elettrici dalle forme impensate e impensabili (e l’indicibile è una categoria che ritorna spesso quando si ha a che fare con musicisti giapponesi): un groove autistico, ossessivo, che inciampa in continuazione per poi rialzarsi e di nuovo inciampare e incantarsi come un disco che salta, poi quel senso di straniamento e levitazione tipico di certo minimalismo, che però invece di arrivare da costruzioni distese ed estatiche ci giunge da pezzi che per davvero sono catapecchie tirate su con due chiodi e un paio di assi storte di compensato fradicio.

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Il poeta turco Nazim Hikmet, raccontando un concerto di J.S. Bach, a un certo punto scrive: “Il miracolo del rinnovamento, mio cuore, è il non ripetersi del ripetersi”. Ecco il fulcro dell’intera faccenda: la ripetizione, sempre sfasata, che invece di diventare rassicurante conferma si fa sottile, inquietante domanda. Cosa combinano questi tre personaggi da manga? Come definire la loro musica? Noise psichiatrico? Antirock? Fukushima punk? E se invece ce ne fottessimo per una buona volta di queste inutili etichette? A più riprese durante il concerto, in particolar modo quando la batteria vira su un tump-tump di cassa mentre basso e chitarra si incaponiscono a gettarsi addosso stracci, il pubblico risponde con entusiasmo e in effetti è inebriante la sensazione di essere riusciti a superare un’ennesima curva cieca dove un cartello “caduta massi” prometteva la pioggia di colpi che poi è puntualmente arrivata.

Il problema con suoni e costruzioni (del resto nel Sol Levante sono esperti in edifici capaci di reggere le più terribili scosse di terremoto, no?) di tal fatta è che il linguaggio classicamente descrittivo fallisce: bisognerebbe provare a rendere in parole quella sensazione di fuga perenne, di stasi nevrotica, di inseguimento da fermo e senza sirene spiegate (la figura del chitarrista-cantante pare uscita di peso da uno dei mitici film noir degli anni Sessanta di Seijun Suzuki, come “Tokyo Drifter”), di fragorosa balbuzie, di ansia sismica.

La musica dei Kukangendai vive di ossimori e di spasmi, è una furia cieca ma tenuta a uno strettissimo guinzaglio. È costruita apparentemente sul niente. Eppure… In un pezzo, appena più articolato e discorsivo, la linea della chitarra ricorda certi Gastr Del Sol: sarà un caso che Jim O’Rourke da anni viva proprio in Giappone? Spettacolari i passaggi in cui la chitarra si fissa maniacalmente su due spiccioli di riff suonati come potrebbe farlo un bambino con la camicia di forza e la batteria replica reclamando spazio per la sua monca follia.

Ovviamente tutto questo viene suonato mantenendo la proverbiale compostezza nipponica: la voce, che ogni tanto fa capolino, ci ricorda che stiamo, nonostante tutto, ascoltando una musica umana (umano troppo umano, diceva quello…) e alla fine del concerto ci ritroviamo contenti ed un poco storditi, convinti di aver assistito davvero ad un evento.

Menzione doverosa per Area Sismica, un locale semplicemente straordinario che da 27 (!) anni propone quanto di più avventuroso in circolazione, e per Federico Savini, che ha il merito di aver portato questa band all’attenzione degli appassionati.
Mentre scrivo queste ultime righe penso agli strumenti della band che riposano nelle loro custodie, alla batteria smontata e muta, al palco silenzioso: l’enigma dell’Impero dei Segni ha colpito ancora e non resta che custodirlo ora, in silenzio.

Grazie ad Ariele Monti per le foto.