KNUT, Leftovers

KNUT is in indefinite hiatus. Thank you.

Gennaio 2012: poche parole per comunicare ai fan la dipartita (definitiva?) di una delle realtà più energiche della marea post-metal, post-hardcore e post- un po’ di tutto sorta a cavallo degli anni Novanta e Duemila. Le ragioni di questa brusca decisione rimangono ignote, anche se dopo quattro album schiacciasassi in quindici anni (Bastardiser nel 1998, Challenger nel 2002, Terraformer nel 2005 e Wonder nel 2010) era forse subentrato il timore di procedere per inerzia nel tentativo di emulare i fasti del passato, condizione inaccettabile per un gruppo che aveva nella sperimentazione la propria ragion d’essere. Ecco perché mi piace interpretare quel freddo annuncio così: “I dischi fighi li abbiamo fatti, ai live abbiamo tirato giù i muri… Andatevi ad ascoltare la nostra roba e se qualche coglione  non è venuto a vederci quando suonavamo a trenta chilometri da casa sua non è un nostro problema”.

Questi erano i Knut: impulsivi ed imprevedibili come la loro musica.

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Sì, il coglione sono io. Suonarono a Milano in un buco a me sconosciuto il 28 ottobre 2010. La vita è una merda.

A distanza di otto anni Hummus Records sceglie di celebrare questa creatura tormentata recuperando il loro primissimo disco Leftovers, uscito in sordina nell’ormai lontanissimo 1997. I sette brani che compongono il lavoro, rimasterizzati da Lad Agabekov e ora affidati a un più consono formato vinile, rappresentano lo stadio embrionale del gruppo svizzero, ancora distante dalla perfetta sintesi di selvaggio hardcore, noise corrosivo e math-rock cerebrale raggiunta coi lavori successivi, eppure già in grado di evocare la catastrofe in agguato appena oltre il muro di riff affilati e drumming selvaggio. Le influenze di Neurosis, Botch e Unsane erano già tutte presenti, gettate in pasto all’ascoltatore in modo un po’ caotico come lecito aspettarsi da ogni formazione agli esordi, tuttavia qualche arrangiamento dal tocco decisamente più personale lasciava presagire ciò che sarebbe scaturito di lì a poco nel più solido e articolato Bastardiser.

I pezzi grezzi e istintivi di Leftovers, benché galvanizzati dal nuovo mastering, potrebbero fare magra figura se rapportati alla monumentale “Wyriwys” o a quella sinfonia della distruzione che è “Neon Guide”, ma trovo che questa uscita offra a tutti gli appassionati la possibilità d’esplorare i passaggi più acerbi del percorso della band, mettendo in risalto gli elementi in seguito affinati per forgiare il loro caratteristico sound. E poi chissà mai che alla re-release non faccia seguito un prepotente ritorno sulla scena dei Knut. Non dubito però che lo farebbero solo se convinti di poterci spiazzare tutti ancora una volta.