KNOTS, Sing, Shattering, A Poem In Reverse

KNOTS, Sing, Shattering, A Poem In Reverse

Siamo nelle distese rosso vivo che stanno nel cuore dell’Australia: umido il clima, alto il sole su di noi, diverse le sfumature di colore sulla terra arida che calpestiamo. Chilometri di nulla, secchezza delle fauci, smarrimento estivo. Questo misto di sensazioni immaginarie corrisponde all’ascolto di Sing, Shattering, A Poem in Reverse, esordio del trio Knots, composto da Eduardo Cossio (chitarra elettrica), Djuna Lee (contrabbasso) e Mike Caratti (batteria). Musicisti che in Australia, ma a Perth, ci vivono, al pari dei tipi dell’etichetta che li pubblica, quella Tone List che abbiamo conosciuto di recente con il disco per solo clarinetto di Shoshanna Rosenberg e che – leggiamo sul sito ufficiale – riconosce negli Aborigeni i custodi delle vaste lande australiane.

In effetti non c’è niente che suoni asciutto nei sette brani di Sing, Shattering, A Poem in Reverse. Non gli acuti della chitarra di Cossio, non il contrabbasso slabbrato e in affanno di Lee, non il rullante dal suono profondo e diffuso (meraviglioso) di Caratti. Questi tre giovani musicisti improvvisano liberamente, sulla base di un’intesa singolare che, dopo aver settato i toni, li spinge sui bordi di una sorta di noise semi-acustico, come emblematicamente avviene in “Hearsay”, il brano centrale e anche il più lungo, con i suoi dieci minuti abbondanti. La lezione di fondo sarebbe quella del free-jazz, ma con derive e voluttà da trio noise-rock (“The Inaugural Fandango”, “Crash And Burn), e sebbene i tre sembrino avere una direzione comune, orientati verso una stessa meta irraggiungibile. Nessuno insegue nessuno, e a nessuno sta in testa: il rapporto è paritario.

Va detto che la peculiarità del disco sta nel pizzicato (?) della chitarra. Figlioccio di un Fred Frith, storto nei modi e imprevedibile negli esiti, Eduardo Cossio produce cascate di suoni squillanti e roventi. Nessuna struttura o narrazione, nessuna scala su cui far scivolare le dita: soltanto corde aperte, zampilli elettrici e scintille a profusione. È un bel guaio per gli altri due dover mettere piede in questo vespaio di note sparse. Mike Caratti abbellisce con legni, campane, archetti che sfregano e piatti di vario tipo e misura. Poi, quando i volumi si alzano ed entra in scena il rullante, come detto, è un’altra storia. Djuna Lee privilegia fughe in pizzicato, mentre in “Too Much A Vanity” – dove adopera l’archetto – pare faccia le veci del sassofono solista. Davvero niente male, come il disco nella sua interezza.