Kevin Martin: forerunner/foreigner

Kevin Martin

Kevin Martin, inglese, è un uomo che apre finestre su interi mondi, spesso quelli che si trovano alle estremità della galassia del suono, permettendo a chi lo ascolta di capire moltissimo su ciò che sta accadendo e che accadrà in quei luoghi. È musicista, producer, giornalista (musicale). Ha ed ha avuto etichette, ha sfornato non si sa quante mixtape e assemblato compilation passate alla storia. Quest’anno è uno dei “curators” del festival olandese Le Guess Who?. Coi God e con gli Ice, sin da inizio Novanta, ha provato a fondere assieme molti generi diversi (free jazz, dub, noise, industrial, metal…). Con Justin Broadrick ha inventato l’hip hop “trasversale” dei Techno Animal, mentre a nome The Bug realizza a tutt’oggi dub alla sua maniera, un sound densissimo al quale è stato riconosciuto grande valore: il suo London Zoo del 2008 è stato uno dei dischi dell’anno per molti giornali. Solo in questo 2019 ha pubblicato l’incredibile Solitude dei King Midas Sound, progetto che tiene in piedi assieme al dub poet Roger Robinson, e poi c’è questo Sirens, uscito a nome Kevin Richard Martin, la colonna sonora – allo stesso tempo fragile e potentissima – dei giorni in cui suo figlio appena nato lottava per vivere. Non dimentico la collaborazione di un paio di anni fa con Dylan Carlson, musicista che per molti di noi su questo sito riveste un’importanza fondamentale.

Martin anticipa sempre i tempi, perché pare non aver paura di niente e soprattutto sembra essere malato di musica, come se non facesse altro nella vita se non registrare, suonare in giro e sentirsi anche un botto di dischi altrui. Non appena mi è arrivato Sirens, pubblicato da pochissimi giorni dalla Room40 di Lawrence English, ho cercato in tutti i modi di farci quattro chiacchiere, anche perché lui rappresenta un tassello decisivo del puzzle dei miei ascolti, uno di quelli che poi ti fa capire come sistemare gli altri pezzi.

La mia prima domanda parte proprio dalle tue interviste. Nelle tue interviste sei sempre onesto, sincero. Parli dei problemi con i tuoi genitori e degli aspetti negativi della tua vita da musicista. Con Sirens ci mostri ancora una volta qualcosa di molto personale. In Italia usiamo spesso una parola difficile per questo: “catarsi”. Quest’album è stato terapeutico per te?

Kevin Martin: In un certo senso sì, ma la miglior terapia di tutte è stata vedere mio figlio crescere in salute e allegro dopo un’esperienza così traumatica. Fare l’album è stato davvero difficile, perché sono dovuto tornare a quei momenti, dopo che mio figlio ormai aveva sostanzialmente recuperato. Una volta che ho deciso di realizzare il disco e dopo che Lawrence English si è offerto di pubblicarlo, è stata la volta di capire che materiale avevo a disposizione. Non so se conosci tutta la storia…

Penso di sì, prima di diventare un album era un progetto che hai presentato al CTM Festival

Sì, ma inizia anche prima, a essere onesto. Nel momento in cui sono venuto a sapere che avrei avuto un figlio, ho detto al mio agente che poteva cancellare tutti i miei show nei mesi  che precedevano e seguivano la probabile data di nascita del bambino. Ce n’era uno, però, che non potevo cancellare, perché era per un amico: il suo nome è Nik Nowak ed è un artista che realizza installazioni sonore. Aveva uno spazio in una prestigiosa galleria di Berlino. Avevamo deciso che il pezzo che avrei fatto per la sua installazione si sarebbe chiamato “Sirens” e sarebbe stato un misto di sirene e vibrazioni di basso, e che sarebbe uscito dal mio sound system. Ironicamente…

… le sirene sono diventate altro…

… e hanno cominciato a riflettere ciò che stava succedendo nella mia vita. Ho lavorato su questo pezzo entrando e uscendo dall’ospedale. Dopo la prima delle due operazioni a rischio della sua vita affrontate da mio figlio, avevano detto a noi genitori che era tutto a posto e che il bambino sarebbe stato dimesso nel tempo di tre giorni. Questo accadeva due giorni prima della mia performance alla galleria, dunque sono andato a suonare lì di buon umore, e mia moglie era con me ed eravamo sollevati. Quella sì che è stata una catarsi, quella sera. Al ritorno al reparto di terapia intensiva, invece, abbiamo trovato una situazione di panico: dovevano richiamare il chirurgo e capire le radici del problema di mio figlio, che tornava a peggiorare. Alla fine quella stessa sera il piccolo doveva essere operato di nuovo e noi genitori siamo tornati all’inferno. E dopo che ha superato queste due operazioni ed è uscito dall’ospedale, “Sirens” è cambiato così come è cambiato il mio stato mentale. Nel momento in cui sono arrivato al CTM, io avevo già incamerato quell’esperienza di vita e la volevo rievocare nel live, che doveva travolgere, proprio come ciò che mi era accaduto. Volevo che il live passasse dall’essere un sussurro all’essere un grido. Volevo connettermi a mio figlio, quindi ho scritto una melodia che sarebbe stata ricorrente durante lo show, inoltre desideravo un impatto che rispecchiasse quella sorta di montagne russe che ho affrontato in quel periodo in ospedale. Ho insistito per portare il mio sound system dentro al Berghain…

La storia del tuo sound system è meravigliosa, per inciso. Ho visto l’intervista per Red Bull Academy dove lo racconti

È una storia folle (ride, ndr). Insomma, dovevo convincere quelli del CTM a usare sia il mio sound system, sia quello del Berghain, che già di suo è enorme. Dovevo assicurarli che non intendevo usare entrambi per uccidere la gente con le frequenze. Volevo solo che fosse tutto intenso, che le basse frequenze scavalcassero l’intelletto e andassero dritte dentro il corpo…

Questo è ciò che di solito fa la “bass music”, tu devi bypassare la parte razionale, andare alla radice…

Sono d’accordo. È una delle ragioni. Ho rifatto alcune volte questa performance, poi si è deciso di realizzare un disco e io ho dovuto di nuovo ripensare Sirens, perché se l’impatto grezzo e fisico era ok per il live, non era buono per un album. Così mi sono approcciato a questo lavoro come se fosse un film score, per rievocare ancora una volta il tutto.

Senza saperlo hai già risposto alla seconda domanda che avevo preparato (ridiamo, ndr), quindi provo a fare la terza, dato che stiamo raggiungendone l’argomento. Hai parlato di film, e io ho notato che c’è un tema ricorrente in Sirens, una melodia familiare che ci viene da associare a un bambino. Com’è saltata fuori l’idea?

È proprio così. Era un’idea che avevo in testa ben chiara. Come ti ho detto, volevo connettermi a mio figlio con quel pezzo preparato per il CTM, e il miglior modo era tramite una melodia da nursery rhyme, ed è ciò che ho fatto. E l’album ha davvero preso corpo nel momento in cui ho deciso che sarebbe stato come un film score. Sono sempre stato grande fan delle colonne sonore e in particolare del compositore Bernard Herrmann: lui ha scritto tutte quelle di Hitchcock. Mi sono accorto che una delle sue grandi strategie era sempre quella di prendere una stessa melodia e mutarla per tutto il film. E questo è ciò che ho voluto per Sirens.

Sì, direi che quella del tema ricorrente è quasi una mossa classica nel cinema. Ciò che mi interessa chiederti dopo questa spiegazione è: posto che sai essere efficace anche in assenza di ritmo (basta sentire l’ultimo King Midas Sound o anche Concrete Desert), qui la musica ha qualcosa di più fragile e vulnerabile del solito… Che cosa ha insegnato a te quest’album sulla tua musica o su te stesso?

Ciò che ha avuto un impatto su di me stavolta è la felicità. Non voglio sembrare un hippie del cazzo, ma ho trovato la felicità con la mia famiglia. Questo ha permesso alla melodia di entrare nella mia musica. Sono anche molto consapevole che per molti anni la melodia era il nemico (ride, ndr). Di sicuro con Techno Animal evitavamo in ogni modo la melodia. Con Sirens, invece, no. Questo è un grosso cambiamento. Volevo un happy ending per l’album. Nostro figlio è un guerriero, ha lottato per vivere, ha affrontato due operazioni intense e le ha superate, e sento che lo ha fatto anche per me e mia moglie. Doveva riflettersi nel disco. È un fatto, perché negarlo? È stata una sfida per me scrivere una melodia e trasportarla in qualcosa che non suonasse kitsch.

Credo che il maggior pericolo fosse questo: sembrare kitsch o cheesy. D’altro canto sei un musicista esperto e hai ascoltato molti dischi, anche melodici; lo si capisce in ogni intervista, così forse non è stato troppo difficile per te trovare la melodia giusta, o magari no…

Non lo so, a essere sincero. La difficoltà per me è sempre stata trovare qualcosa che fosse allo stesso tempo originale e connesso a me. Un cantante può essere personale con la propria voce, ma se devi passare attraverso la tecnologia, come me che sono un musicista/producer elettronico, diventa impegnativo. In tutti i miei album è importante che la gente apprezzi il fatto che io sto facendo qualcosa di nuovo, ma anche qualcosa che è una continuazione di me, un’eco della mia voce.

Beh, non so come tu venga percepito in Inghilterra, ma in Italia ti consideriamo da sempre un precursore. Fossi in te non mi preoccuperei. Kevin Martin fa sempre le cose prima degli altri. Hai suonato musica estrema in un certo modo e poi la gente ha copiato, poi sei partito con Techno Animal e dopo ecco i Dälek…

Anzitutto grazie, è un grosso complimento per me. È anche una maledizione, questa. Essere il primo significa anche zero sicurezze. Una delle ragioni per cui abbiamo sciolto i Techno Animal era perché a nessuno fregava un cazzo di noi. Era impossibile per noi esistere, sai. Letteralmente impossibile. Hai menzionato i Dälek: non so quando hanno iniziato, noi non li conoscevamo all’epoca e penso che loro – più che essere ispirati da noi – stessero seguendo il nostro stesso percorso…

Sì, lo credo anche io, ma è come se tu avessi intuizioni prima degli altri. Un altro esempio è il dubstep. In un certo senso, tu, Scorn e anche Broadrick eravate già lì. Quando ho scoperto l’esistenza del dubstep (di solito ascolto roba più estrema), ho pensato “ok, questo è Scorn, questo è The Bug…”.

Mi vien da ridere, perché tu hai detto “precursore” (forerunner) e io ho pensato a “foreigner”. In generale io sono “straniero”, “outsider”, “alieno”… metti tutto questo insieme, sono tutti aggettivi adatti a me. Fin da subito, quando ero un teenager ed ero già in fissa con la musica, non ero a mio agio perché all’epoca c’era un’appartenenza tribale ai vari generi. Io non riuscivo a sintonizzarmi con un solo tipo di musica. Uno dei miei migliori amici era uno dei migliori dj rockabilly del Sud dell’Inghilterra, un altro mio amico girava con Genesis P Orridge e faceva industrial music… Io assorbivo tutto, mi ispiravano gli aspetti “hardcore” di ogni genere, ma non sentivo di appartenere a nessuno di essi…

Allora, mi sento di aggiungere qualcosa a questo discorso, visto che mi racconti di quando eri teenager, e approfitto per farti una delle domande che avevo pensato. Ho intervistato sia Broadrick, sia Harris e loro ovviamente hanno tante cose in comune: la prima è Birmingham, una città che li ha influenzati  col suo paesaggio (e le sue ambientazioni ballardiane) e col dub, dato che ha una grossa comunità giamaicana. Cos’è stato la tua Birmingham? Io penso che voi tre siate simili…

Siamo simili. Dove sono cresciuto, sulla costa meridionale dell’Inghilterra, erano tutti assolutamente bianchi. Mio papà era un militare della Marina e quando io ero bambino ci spostavamo di continuo (quindi sin da subito ho sentito di non avere radici): alla fine, però, ci siamo piazzati in questa cittadina chiamata Weymouth, che era una specie di versione in miniatura di Brighton, dove era molto difficile vedere qualcuno che non fosse bianco. Non era ballardiana, era una città inglese schizofrenica: d’inverno era una grigia ghost town, d’estate era invasa da gente di Birmingham e da gallesi. Per tutto il tempo, invece, a circondarla, c’erano una base navale, una dell’esercito, una dell’aviazione. Se la vedevi dal mio punto di vista, quello del punk, era una zona di guerra. Mi hanno pestato varie volte. La vita era un inferno. Ho visto con maggior regolarità violenza in Weymouth che in qualsiasi parte di Londra. A Londra, quando vedi la violenza, è qualcosa di mortale (tipo “oooh, merda!”), ma in Weymouth la violenza era sistematica, ogni weekend. Questi pazzi dell’esercito scendevano dalle basi si riempivano di alcol o di qualsiasi cosa trovassero e, nel momento in cui realizzavano che non c’erano abbastanza donne in giro, per la frustrazione riempivano di botte gente come me (ride, direi per fortuna, ndr).
Ciò che condivido con Justin è che la musica è stata la mia salvezza. La mia famiglia era un’altra zona di guerra catastrofica, ma tra mio padre e mia madre, mio padre ci picchiava… la musica diventava un mondo parallelo, un modo diverso di percepire le cosa, una fuga. Londra è stata la mia Birmingham, in un certo senso, ma penso che i miei meccanismi di difesa, il mio status di outsider e la mia sfiducia nei confronti delle strutture sociali siano tutte cose nate in quella città schizofrenica chiamata Weymouth. La mia fortuna è che comunque lì c’era un negozio di dischi che mi ha aiutato a scoprire tantissima musica (Birthday Party, Joy Division, Captain Beefheart, reggae…). Anche John Peel ha aiutato e immagino lo abbiano detto anche Justin e Micky…

… Harris mi ha proprio detto esplicitamente che lui ne era un grande fan.

Anche io. Per me era un’ancora di salvezza prima che quel negozio aprisse a Weymouth. Non c’era internet. Stiamo parlando dell’epoca dei dinosauri. Quindi John Peel era questa specie di Dio che ti trasmetteva la conoscenza: reggae, psichedelia, punk rock, la roba più strana che ti viene in mente… lui me l’ha passata e io ne avevo bisogno quella volta. Post-punk e il primissimo industrial: questa è la roba che nello specifico ha parlato a me in quegli anni. Si trattava di essere diy, individualisti, distruggere le strutture, creare la tua realtà e trovare la tua voce. E, come dicevo, dev’essere stato così anche per Micky e Justin. Abbiamo anche età vicine.

Pensa che a me sembrate essere in giro da sempre, ma  in realtà siete ancora molto giovani rispetto a ciò che uno potrebbe pensare. Broadrick ha appena cinquant’anni adesso…

Tutti e tre siamo un po’ bambini. In un certo senso non va bene, ma abbiamo ancora voglia di navigare i nostri sogni, nonostante l’incubo che è l’industria musicale. Siamo rimasti tutti e tre appassionati in modo quasi insano di musica, perché ha cambiato le nostre vite.

Prima che mi dimentichi: parlavamo di colonne sonore, temi ricorrenti… Da Tapping The Conversation (come The Bug, sua personale colonna sonora del film di Coppola con Hackman, ndr) a Sirens è facile immaginarti lavorare su una colonna sonora. E in questi anni l’industria cinematografica sembra interessata a lavorare con musicisti indipendenti…

Sì, pensa a “Under The Skin” di Mica Levi o “Hereditary” di Colin Stetson: score incredibili!

Ma c’è una possibilità che qualcuno ti chiami a farne una? Ti hanno mai avvicinato?

È successo, ma non ne è mai uscito niente, per un motivo o per un altro (alcune offerte non mi ispiravano, ad esempio). Ne parlavo due-tre anni fa col capo di Ninja Tune, che è il mio editore, e gli dicevo che ero mortalmente serio nel voler fare una colonna sonora, ma tutto è caduto nel vuoto… in compenso, per riderci su, due mesi fa lui, dal nulla, mi dice che ha sentito Sirens e mi chiede se ho mai pensato di realizzare uno score…
Già con Re-Entry dei Techno Animal si trattava di me e Justin che realizzavamo soundtrack di film che non esistevano. Justin si sentiva un po’ imprigionato dal nome Godflesh e io non volevo seguire le logiche dell’essere in una band. Ci eravamo entrambi innamorati dello stare in studio e attraverso di esso ottenere musiche che fossero “anti-struttura”, che non dovessero scendere a compromessi con la forma-canzone, quindi avevamo cominciato a essere pesantemente influenzati da musica per film, world music, classica contemporanea, ambient e tutti i generi che avevano dichiarato guerra alla canzone e rigettavano lo schema occidentale del pezzo che doveva stare tra i tre e i sei minuti.

Io mi ero preparato due domande storiche per te. La prima era quella su Birmingham. La seconda, visto che hai appena citato tu il genere ambient, te la faccio adesso. Molta gente nell’underground italiano – giro industrial music, dark ambient –  ti conosce per via di “Ambient 4: Isolationism”. C’è un’etichetta romana che si chiama Glacial Movements e dice di occuparsi di “isolazionismo”. Alcuni considerano “Ambient 4” un oggetto sacro. Hai dei ricordi da condividere con noi italiani?

Fui fortunato a realizzare tutte le compilation che realizzai per Virgin in quel periodo. Fu anche una fortuna incontrare questo ragazzo di nome Simon Hopkins, che all’epoca lavorava per la Virgin e che mi commissionò le due “Macro Dub” compilation e anche quella intitolata “Jazz Satellites” (in seguito Kevin mi spiega che lui era sotto contratto con Virgin coi God, nello specifico con una sotto-etichetta Virgin chiamata Venture, e Simon collaborava col boss di Venture, dunque venne a sapere di lui grazie al disco dei God e diventarono amici, ndr).

Il lavoro sull’isolazionismo derivava da una mio pezzo di quello stesso periodo su Wire – che comprendeva un’intervista a Thomas Köner – nel quale scrivevo come il genere ambient di quell’epoca stesse diventando “solitario”, “antisociale”, più desolato. Hopkins lo aveva letto e mi chiese di mettere insieme qualcosa che rispecchiasse l’estetica e la filosofia che stavo cercando di sviluppare con quell’articolo.
Era un periodo in cui molti (Justin, Micky…) avevano lasciato il loro gruppo e in cui la tecnologia aveva cominciato a diventare più affidabile, così non dovevi più per forza scendere a compromessi con gli “umani”, ma potevi riflettere il tuo stato mentale. E sì, ci sono lati positivi e negativi in questo. Per noi era un modo di vedere che alternative c’erano al rock e al materiale “strutturato”, quindi cercavamo altri tipi di musica nel passato per poi poter dire qualcosa di nostro. In questo senso era un periodo speciale. Ovviamente, come sempre, e la cosa fa sorridere, ricordo come tutti i musicisti, ad esempio Robert Hampson e Micky, odiassero la definizione “isolazionismo”.
Non è comunque la mia compilation preferita tra quelle 4, lo è “Jazz Satellites”, mentre ad aver il maggior impatto in generale direi che fu quella “Macro Dub”, specie il primo volume, che ebbe un successone in America. È pazzesco, a essere sincero, che si parli ancora di queste pubblicazioni, dato che – oltre a essere la prova che ero fissato con tutta la musica – di base si trattava di qualcosa con cui provavo a pagare l’affitto…

A me piaci come “curatore”, “compilatore”, e ne parleremo anche dopo. Da poco, ad esempio, hai preparato un mix per Fader, dove hai fuso “Kangaroo Care” (da Sirens) con una poesia di Charles Bukowski, e questo riecheggia quanto hai fatto con King Midas Sound in Solitude. Vorrei parlare dello spoken word, che può essere molto efficace in combinazione con un soundscape. Hai collaborato con tanti tipi di vocalist: quando hai realizzato il potenziale dello spoken word?

Domanda davvero difficile e buona. Non saprei trovare una risposta certa. In generale odio la poesia, quella tradizionale. Mi interessa molto la “dub poetry” o la “outsider poetry”. A scuola niente mi ispirava. L’ho lasciata senza ottenere nessuna qualifica. L’unica cosa che mi interessava lì era la letteratura inglese: ho avuto la fortuna di leggere “1984” di George Orwell e “Uomini e Topi” di Steinbeck durante quegli anni. In qualche modo, dunque, ho presente il potere della parola, anche se, man mano che la mia vita ha proseguito, ho cominciato ad avere sempre meno fiducia nelle parole. Ma mi piacciono le vocals, la poesia, il rap in una traccia, se a occuparsene sono altri.
Sto cercando di pensare al primo spoken word che mi ha colpito, da dove arrivi tutto… probabilmente, quando avevo più o meno quattordici anni, è stato vedere Linton Kwesi Johnson (uno dei più conosciuti poeti dub, ndr)  su “The Old Grey Whistle Test”, un programma molto tradizionalista, al tempo uno dei pochi dedicati alla musica della BBC. Io per parte mia ascoltavo i Discharge e mi trovai di fronte Linton Kwesi Johnson che recitò due poesie a cappella, e fu estremo per me. Non aveva una band, non cantava e se ne uscì con questa poesia intitolata “Inglan is a Bitch”, e questo era sulla tv nazionale, quella che tutti all’epoca guardavano perché non c’era scelta. Ebbe un grosso impatto su di me, e non c’era suono. E con gli anni per me diventò qualcosa di patologico unire spoken word e suono. Pubblicai un album di Lydia Lunch, ad esempio, e poi cercai di far recitare a Ballard uno dei suoi scritti, con sotto la musica di Foetus. Quest’ultimo era d’accordo, lo era anche Ballard all’inizio, poi io commisi l’errore grossissimo di dirgli che Burroughs aveva fatto un gran lavoro con Dead City Radio e a quel punto J.G. disse “se l’ha già fatto William… non ha senso farlo”. È per me motivo di enorme tristezza, perché Ballard è uno dei miei eroi. La prima volta che sentii Roger Robinson (con cui forma i King Midas Sound, ndr) fu dopo che aveva autoprodotto il suo sette pollici Chocolate Art. Recitava qualcosa di suo sopra a un loop di Alice Coltrane e mi fece esplodere la testa… ma tutto risale a Linton Kwesi Johnson.

Sono alla mia ultima domanda, sempre a proposito di curatele. Quest’anno una parte del cartellone de Le Guess Who? ha sotto la tua firma. È la prima volta che fai un lavoro del genere?

Sette anni fa mi sono occupato di una sola giornata dell’Elevate, un festival austriaco, ma fino ad oggi non ero mai stato coinvolto in qualcosa di così grosso come Le Guess Who?.

Sembra che tu abbia chiamato il mondo musicale che ti sta intorno. Non so se si può dire, ma gente di cui ti fidi… Quali sono stati i tuoi criteri?

Volevo mostrare i miei riferimenti passati, presenti e futuri. Jah Shaka e i Godflesh mi sono stati d’ispirazione tutta la vita. Poi c’è Slikback, che coi suoi due ep è agli esordi, ma che mi è ugualmente di grande ispirazione: ho realizzato che c’è qualcosa di molto fresco in lui, e di non occidentale. Le Guess Who? mi aveva chiamato a suonare due anni fa, ed era folle quanta gente avessero chiamato: Basinski, Grouper, Alice Coltrane, Sun Ra Arkestra… roba da matti, cazzo, era la mia collezione di dischi in carne e ossa. Poi mi hanno chiesto di fare il curatore. La difficoltà per me in questo caso sta nel non poter ri-chiamare determinati artisti che sono già passati e ovviamente nel budget, i soldi non sono illimitati, anche se è un festival enorme. Alcune mie proposte sono state respinte, ma alcune no, e sono molto fiero di ciò che ho fatto. Poi sono stati gli organizzatori a volere la presenza di molti miei progetti, quindi sono stati a loro a scegliere Zonal, King Midas Sound, la mia collaborazione con Hatis Noit…

A questo punto ho dichiarato conclusa la mia missione, sono seguiti ringraziamenti reciproci e qualche chiacchiera sui festival olandesi e sull’Italia: a un dato momento abbiamo accennato anche a Steve Goodman e lì ho capito che avremmo potuto farne altre dieci, di interviste.

Le Guess Who?