KEN MODE, Loved

Loved

Penso si possano saltare le presentazioni coi Ken Mode da Winnipeg, “buco di merda ghiacciato”, come ebbe a definirla il loro illustre concittadino Venetian Snares: sono in giro da ormai quindici anni e sono al settimo full length, il terzo su Season Of Mist (dunque non manca la pubblicità), dopo essere passati anche su Profound Lore.

Loved, a differenza di Success, sembra essere l’album più pesante e cattivo della loro storia. Se a questo si aggiunge che negli ultimi anni hanno preso parte a tributi a Helmet e Unsane, i giochi sono fatti: in poche righe ci sono già un pubblico di riferimento e delle coordinate chiare. Se ne andranno in tour con Birds In Row e Coilguns e nel mentre si divertono anche a fare delle playlist su Spotify (dev’essere gente che va in palestra): i loro gusti sono semplici, e più o meno collocabili in quegli anni Novanta lì, anche se non fermi al secolo scorso, un po’ come il loro sound.

Loved comincia digrignante col primo singolo “Doesn’t Feel Pain Like He Should”, nel quale si sente uno spunto black metal che sembra messo lì a dire subito quanto sono coscienti di dover rimescolare le carte ogni tanto: immagino il sorriso dei fan al solo pensare di sentirla dal vivo. Si prosegue con “The Illusion Of Dignity”, in apparenza più nel loro canone, ma che termina col sax free di Kathryn Kerr a dare ancora una volta una sfumatura diversa, poi tocca al secondo singolo, “Feathers & Lips”, sempre al confine tra metal e noise-rock, a “Learning To Be Too Cold”, apocalittica e più articolata, e a “Not Soulmates”, altro pezzo scelto come assaggio dell’album prima della sua uscita: You’re going to continue enjoying this mistake with me, sbraita Jesse Matthewson (davvero in formissima), perché questo è un disco che parla d’amore. Adesso è la volta di “Very Small Men”, la più bruciante e dunque la più breve di tutte.

Pausa sigaretta: siamo a sei pezzi e oltre la prima metà album, e i Ken Mode non hanno mai mollato la presa.

“This Is A Love Test” rallenta, il batterista quasi si mette a jazzare quando entra in gioco di nuovo il sax, ma è il vecchio trucco della dialettica tra vuoti e pieni, quindi non mancano le parti esplosive. Arriva il basso ultra-distorto di “Fractures In Adults” e mi rendo conto di quanto sono stato bravo a scrivere “Unsane” solo due volte compresa questa, poi il disco termina con gli otto minuti e mezzo di “No Gentle Art”, più malata (se possibile) e fuori dagli schemi (ancora una volta c’è il sax di Kathryn Kerr a dare una sfumatura in più).

Bravissimi.