John Surman duo, 8/9/2022

John Surman, foto di Monia Pavoni

Firenze, PARC, Festival Fabbrica Europa.

Sarà un luogo comune, ma seguire concerti di musicisti con storie lunghe e prestigiose alle spalle può significare anche essere in qualche modo condizionati: ognuno si porta dietro un pezzo della loro storia, le aspettative possono risultare diverse. È successo anche a Firenze con il vecchio saggio John Surman, che si è presentato in duo con il pianista norvegese Vigleik Storaas nell’ambito della programmazione di Fabbrica Europa. La memoria non può che andare al 1969, quando in Extrapolation di McLaughlin scoprimmo le ance scoppiettanti del musicista britannico e rimanemmo affascinati da suono, energia e creatività. Se quel biglietto da visita è indelebile, Surman è tanto altro, tanti percorsi, progetti e collaborazioni (The Trio, S.O.S, le esperienze con Gil Evans e Paul Bley, il duo con DeJohnette, l’avvicinamento all’elettronica…).

A Firenze, con tutto questo bagaglio di storie e nomi nella testa, aspettavamo fiduciosi che Surman, settantotto anni portati alla grande, ci sorprendesse ancora. Lo svolgimento del concerto del duo però non è andato proprio in questa direzione. Sul piano strumentale, intatte sono l’eleganza, la personale cura del suono, la capacità di creare ambientazioni poetiche e oniriche del sassofonista, ma vengono usate come neutri elementi di un esercizio di stile, distribuiti in brevi siparietti sonori, più che come sezione portante di una architettura complessiva. In realtà del suo grande talento strumentale non abbiamo mai dubitato, da oramai cinquanta anni. Avremmo invece gradito che questo fosse messo a disposizione di una costruzione programmatica in un linguaggio più coraggioso, meno lineare e rassicurante.

Vigleik Storaas, foto di Monia Pavoni

Surman predilige soprattutto il soprano, ma usa anche il clarinetto basso, brevemente il flauto. Le fonti, gli stimoli, provengono da motivi popolari, danzanti e folklorici, ambienti classici, solo nel bis un riferimento al blues. Il musicista britannico conferma il carattere meditativo del proprio percorso di ricerca, la presenza costante di una traccia melodica alla quale tornare, ma in assenza di sussulti ritmici, cambi di direzione e con poca improvvisazione, rischia l’appiattimento, l’omologazione di tutti i materiali. La raffinatezza delle sfumature è comunque sempre affascinante, i chiaroscuri pregevoli, il fraseggio agile. L’uso di effetti, echi e distorsioni è limitato e calibrato, e anche su questo fronte da uno sperimentatore della prima ora come lui ci  aspettavamo qualcosa di più. Storaas garantisce un contributo aderente all’andamento del concerto. Esce poche volte dal proprio compito di affidabile accompagnatore, quasi attento a non disturbare il leader, con qualche improvvisazione piacevole ma fin troppo accademica.

Come qualche volta succede nei concerti, nel finale si ascolta qualcosa di diverso. All’ultimo Surman al soprano riscopre energie di un lirismo travolgente nell’esplorazione di un brano dove le increspature ritmiche emergono e allontanano i panorami sonori troppo uguali a loro stessi fino a quel momento ascoltati. Nel bis addirittura sapori blues e pianoforte che evoca lo stride. Ma è troppo tardi.

foto di Monia Pavoni