John Scofield Trio, Chris Potter & Craig Taborn, Youssou N’Dour, Sylvie Courvoisier & Mary Halvorson al Jazz Festival di Cully

Craig Taborn e Chris Potter

Cully (Svizzera), Chapiteau, Next Step, Temple. Foto di Piercarlo Poggio.

JOHN SCOFIELD TRIO + PIANOFORTE, 5/4/2025
CHRIS POTTER & CRAIG TABORN, 8/4/2025
THE BLACKBYRDS, 9/4/2025
KONKOLO ORCHESTRA + YOUSSOU N’DOUR & LE SUPER ETOILE DE DAKAR, 10/4/2025
SYLVIE COURVOISIER & MARY HALVORSON, 12/4/2025

Il bilancio del borgo di Cully, interamente a trazione vitivinicola, è stato anche quest’anno in linea con le aspettative: circa settantamila anime hanno bevuto e mangiato nelle sue stradine e in riva al lago oppure riempito gli spazi e le cantine ospitanti gli oltre 130 concerti, di cui 34 a pagamento, presentati sotto l’insegna della 42a edizione del Jazz Festival (4-12 aprile). Il budget della manifestazione si aggira sui 2,5 milioni di chf e permette di allestire un cartellone vario e in generale ancora curioso, nonostante l’imperativo di dover sempre almeno avvicinarsi al tutto esaurito nelle tre principali strutture, Chapiteau (un funzionale tendone da 1300 posti eretto ogni anno), Next Step (denominazione festivaliera della Salle Davel, il salone delle feste del villaggio) e Temple (la chiesa protestante). Tenuto conto che l’abbuffata musicale, in particolare a una certa età, è sconsigliabile a priori, ci siamo sforzati di limitarci a pochi eventi e nell’insieme ci è andata piuttosto bene. Tranquilla la velocità di crociera della prima serata, con John Scofield e il suo trio (Bill Stewart, Vicente Archer) impostati sulla falsariga del loro Uncle John’s Band (ECM 2023), anche se sono mancate cover di Dylan e Young a rendere più “folk” il set, mantenutosi in linea di galleggiamento fra standard – il “Blue Monk” d’avvio, il “Budo” di Davis e Powell a metà, “Naima” (Coltrane) verso la fine e il bis “Ida Lupino” (Carla Bley) – e piacevoli scritture del chitarrista (“TV Band”, “Mo Green”, “Mask”). Il cui stile rimane riconoscibile, essenziale, mai esibizionista, anche se ormai comodamente seduto sul divano. A seguire, un non gruppo altrettanto in equilibrio fra brani altrui di una certa notorietà e originali dei singoli componenti, Baptiste Trotignon, Bojan Z, Eric Legnini e Pierre de Bethmann. Due pianoforti alle estremità del palco e due Fender Rhodes al centro è stata la disposizione scelta, con i protagonisti ad alternarsi a rotazione sugli strumenti. Il loro PianoForte (Artwork) è dell’anno scorso e si apriva proprio con “Poinciana”, resa celebra da Ahmad Jamal, per articolarsi poi con “Celia” (Bud Powell), “Cornfield Chase” (Trotignon) e “Butterfly” (Maupin/Hancock). La presenza dei due piani elettrici permette di prendersi più di una licenza, di rendere meno ingessato il repertorio, scelta che ripaga i quattro specie quando affrontano temi già di loro improntati alla fusion, dal “Mercy, Mercy, Mercy” di Joe Zawinul al “Chorinho” di Lyle Mays. È un live nel quale non c’è ombra di supponenza virtuosistica, il bene comune collettivo viene prima di tutto e proprio per questo sarebbe stato bello se i ragazzi avessero avuto voglia di osare di più.

Tra candele e lumini a circoscrivere il palco, in chiesa Chris Potter e Craig Taborn hanno dimostrato di essere legati a filo doppio, anche se per loro il presente tour europeo è l’esordio in coppia (incredibile ma vero). La dimestichezza nel forgiare le improvvisazioni ha attestato capacità d’ascolto reciproca e l’intera esibizione ha dato l’impressione di dover finire presto in studio per un prossimo disco. A riprova, per entrambi c’erano molti fogli sul leggio e sparsi sul pianoforte, mentre di standard non ci pare di averne ascoltati. Potter ha sfruttato soltanto il sax tenore e con Taborn ha allacciato interazioni che, in numerosi casi, specie a inizio brano, avevano carattere astratto e indefinito, salvo poi indurirsi nel procedere, fino a giungere a una certa esplosività. Taborn ha anche “preparato” a tratti il suo strumento, insistendo a volte su figurazioni ossessive, iterate, che volutamente cozzavano con i fraseggi distesi e ampi del compagno. In sintesi, un duo da tenere sotto stretta osservazione, speculare e dalle tonalità in chiaroscuro, che ha saputo catturare gli spettatori dapprima circondandoli con fare indifferente per poi condurli da tutt’altra parte.

Solo divertimento invece il giorno appresso, perché The Blackbyrds hanno per missione di far scatenare il pubblico e ci riescono come pochi altri. Ditta da mezzo secolo nel business, pur tra inevitabili alti e bassi, mantiene ancora la sezione ritmica originaria (Keith Killgo e Joe Hall) e un’invidiabile carica agonistica. Jazz-funk accaldato, r’n’b energico, soul che vira alla disco, brevi rallentamenti giusto per far riprendere fiato ai paganti, la band suona precisa, compatta e d’insieme, finendo per farsi volere bene anche al di fuori della cerchia dei fan stagionati.

Youssou N’Dour

Aperta dall’afrobeat della Konkolo Orchestra, ampia formazione zurighese dall’andatura più che onorevole, la serata con al centro Youssou N’Dour & Le Super Etoile de Dakar non ha deluso le aspettative. Il senegalese comincia ad avere i suoi anni, a sottilizzare si potrebbe pure dire che la sua voce non raggiunge più le vette di un tempo e però il suo show fondato sullo mbalax pop continua a essere travolgente, unico e senza rivali nell’immediato. La dozzina di strumentisti che si porta appresso è un treno in corsa, i solo sono sostanzialmente vietati e l’orchestra si muove come un corpo unico. A impressionare sono in particolare i quattro percussionisti (più un batterista), sfalsati tra loro di pochissimo ma perfettamente sincronici per l’obiettivo finale: dare un saggio di poliritmia vivente. Due brani provengono da Éclairer Le Monde – Light The World, prodotto da Michael League e appena pubblicato, esplicitamente dedicati al chitarrista Jimi Mbaye scomparso in febbraio e per quarant’anni a fianco di N’Dour. “Senegal Rekk” e la superhit “7 Seconds”, interpretata in duo con una giovane vocalist, non possono mancare nelle due ore di esaltazione collettiva che è durato lo spettacolo. Per il pubblico, di continuo aizzato al grido di “siete stanchi?”, c’è stato da sudare e abbiamo notato con piacere come per una volta un concerto di musica africana in Occidente avesse tanti spettatori africani, attivi e pronti a cantare in wolof, cosicché a un certo punto sembrava di stare a un concerto di Baglioni (però senza Baglioni).

Per concludere in bellezza niente di meglio che Sylvie Courvoisier e Mary Halvorson, reduci da un fresco e fantasioso Bone Bells (Pyroclastic), terzo capitolo di un connubio tra i migliori dei nostri giorni. La Courvoisier, originaria di Losanna ma domiciliata da due decenni a New York, ha agito molto nel corpo del suo pianoforte, mentre la Halvorson, che pare sulle prime una ragazza molto ammodo e quasi timida, ha avuto alla chitarra degli scatti nevrotici e noise di rara efficacia. Detta così sembrerebbero una coppia fatta apposta per far allontanare i presenti dopo poco, ma in realtà è avvenuto l’esatto contrario, grazie a una musicalità che contagia anche i suoni in teoria meno accessibili e li trasforma in un flusso avvolgente. È un’esperienza d’ascolto da vivere in diretta, improntata a scatenare l’immaginazione, ma difficilmente descrivibile a parole. Di parole ne ha pronunciate invece una decina la Courvoisier a metà concerto, per segnalare alcuni dei termini (attivismo, antirazzismo, genere, femmina, identità, diversità, transgender, gay…) soppressi dall’amministrazione Trump negli atti ufficiali. Un gesto politico che abbiamo altamente apprezzato e che dimostra ancora una volta come siano sovente gli artisti i primi a prendere posizione e a denunciare le assurdità dei governanti.

Sylvie Courvoisier e Mary Halvorson