JOHN DE LEO GRANDE ABARASSE ORCHESTRA, 28/7/2021

Reggio Emilia.

Una veglia guardinga, con gli strumenti a zampillare un pugno di note come da geyser acustici, ed il leader di spalle a dettare i movimenti dell’orchestra, con il clima che da sparso e rarefatto si fa vorticoso e poi fibrillante. Ripartenze, la rassegna estiva dei Teatri di Reggio Emilia, con dieci spettacoli su un palco montato fuori dal Teatro Valli o in altri luoghi della città come i Chiostri, ha gettato a terra alcune briciole per ritrovare la strada di casa e per riprendere la sana abitudine di nutrirsi di arte e di cultura, con la speranza che in autunno la situazione permetta di fruire con non troppi patemi delle stagioni dei teatri, dei club, dei festival (a Reggio dal 18 settembre inizierà Aperto, al suo tredicesimo anno, qui potete consultare il programma e qui invece leggere il nostro racconto dell’edizione di tre anni fa). Il penultimo appuntamento è il recital della Grande Abarasse Orchestra di John De Leo. Cantante sui generis, animatore di Lugo Contemporanea, virtuoso e curioso, capace di visitare mondi lontani e divergenti con la sua voce e altresì in grado di tenerli insieme all’interno di una visione ampia, libera, rigorosa senza essere rigida, naturale e coerente (“Sei libero se lo vuoi”, canta), il musicista romagnolo si presenta con una rinnovato assetto della sua orchestra. Niente batteria, niente basso, le frequenze basse sono coperte dal clarinetto basso e dal sax baritono di Gianluca Fortini e Piero Bittolo Bon (che fece proprio a Reggio sette anni fa, invitato da chi scrive, una della sue prime incursioni con l’avventuroso progetto Spelunker, per sax alto e feedback, qui il video della performance) e dallo stesso De Leo, che sovente imita un contrabbasso con la sua voce camaleonte, capace d’inerpicarsi in cima per poi precipitare sul fondo di un mare denso e scuro, di vagare, svanire. Proprio “Vago Svanendo”, dall’omonimo album del 2007, racchiude una dichiarazione d’intenti: “Lontani dal mare, qui non è musica solare, siamo sull’altro versante e piove dentro una coltre d’autunno a perdita d’animo anche domani”. Difficile trovare paragoni per l’arte di De Leo, una sorta di avant-pop felliniano da camera sempre avvolto in un vago stupore di pellicola, felicemente in bilico tra accademia (a volte, unico difetto di un live di altissimo livello, il cantante si fa prendere un po’ la mano dalla sua straordinaria bravura) e circo (la Romagna si fa sentire, nell’ironia, in certi ritmi di valzer, nel lieve disincanto dei testi). L’Orchestra interviene sul corpo (talora morto) della canzone iniettando nei suoi tessuti sangue avant, con benvenute e frequenti digressioni astratte dove la voce si tramuta in percussione a galleggiare nello spazio, come in uno Space dei Grateful Dead o in un intermezzo da giungla cosmica di Sun Ra. Per l’abilità nell’imitare i suoni più disparati e per il virtuosismo viene in mente Bobby Mc Ferrin (De Leo usa però il looper, e lo fa anche molto bene, al netto di alcune lungaggini), mentre per l’attitudine a far confluire nell’alveo di un pezzo suggestioni di ogni tipo i primi nomi che associo sono Fiona Apple e Joanna Newsom, due donne: un buon segno, per un cantante. L’uso della pedaliera porta lontano la voce, a cantarla come faceva (inevitabile citarlo) Demetrio Stratos, oppure come il Mike Patton più eclettico, quello dei Mr. Bungle. Come in un clash tra lounge sofisticatissima e contemporanea, polvere di stelle raccolta a Broadway e vertigini fatte canzoni, è la voce, nel suo magistero imprendibile e assoluto, a dirigere le movenze del nonetto, con chitarra semiacustica (Fabrizio Tarroni), due violini (Massimiliano Canneto e Federica Vignoni), violoncello (Paolo Baldani), i due fiati già citati, pianoforte e fisarmonica (Silvia Valtieri), campionamenti e manipolazione del suono in tempo reale (Franco Naddei). Per profondità e capacità espressiva mi è naturale accostare il lavoro sulla voce di De Leo a quello di due maestre di teatro, romagnole come lui, Chiara Guidi ed Ermanna Montanari (ascoltatevi Fedeli D’Amore, il cd a suo nome con la musica di Luigi Ceccarelli, pubblicato da Stradivarius nel 2020). Chiude la “Mazurka Del Misantropo”, con una divertente, azzeccatissima citazione di “Volare”, ed una ironia dadaista ed affilata: “La vita era scandita dagli orari abituali in ordine felice, proprio in concomitanza alla vostra presenza qui di foreste e malattie. Vi odio, sono solo e voi gioite poiché il mondo è infido, morite”. Suggello perfetto di un concerto luminoso e oscuro al tempo stesso, guidato con piglio sicuro da un musicista dal talento strabordante, capace di diffonderlo in mille rivoli senza disperderlo (parliamo di uno molto parsimonioso dal punto di vista discografico: Il Grande Abarasse è del 2014), con la libertà del jazzista e la capacità di restare cantabile e spericolato. Un unicum, in Italia, e forse non solo.