Jazzcore prima di te: intervista a Diego D’Agata (Testadeporcu, Splatterpink)

D’Agata con dietro gli altri Splatterpink

Diego D’Agata fonda gli Splatterpink a Bologna nel 1990. Nella band – tra gli altri – passa pure Metello Orsini, poi anche con Massimo Volume. I pezzi vengono trasmessi vari volte da John Peel sulla BBC. Il loro primo disco, Industrie Jazzcore del 1995, è una perla. Ora, messi in freezer gli Splatterpink, da tempo Diego si dedica anima e corpo a Testadeporcu, duo spaccaossa basso e batteria.

Abbiamo colto l’occasione di un loro concerto assieme ai NoHayBanda! da Roma nello splendido ed accogliente spazio del Caseificio La Rosa nelle campagne della bassa reggiana, a Poviglio ( il paese da dove vengono i Raw Power), per fare due chiacchiere con lui.

Prima, però, una doverosa parentesi su una realtà che merita di essere messa in luce, quella del Caseificio. Il Caseificio La Rosa è un’associazione culturale no profit, apartitica e autogestita, che opera in ambito culturale e di intrattenimento. Obbiettivo principale è condividere, diffondere e promuovere cultura slegata dalle tendenze dominanti, in un contesto libero da logiche di mercato. Tutti i ricavati delle iniziative vengono reinvestiti per realizzare altri eventi. Tutte le persone impegnate nella gestione/organizzazione dell’Associazione sono volontari. Propone e ricerca solo musica indipendente, no cover band, no copyright e da cinque anni a questa parte ha organizzato circa duecento concerti (citando solo alcuni: Jealousy Party, Cut, Drekka, Bob Corn, Daimon, Anatrofobia, Maurizio Abate, Morkobot, Be My Delay).

Sabato 21 ci sarà la festa di chiusura nel bosco adiacente al Caseificio (proprio di un ex caseificio si tratta, ristrutturato e riadattato a locale, con un risultato che è una fantastica via di mezzo tra un centro sociale berlinese e un club) con Okapi a presentare lo spettacolo a/v del suo ultimo stupefacente disco (ne abbiamo parlato qui). Vi consigliamo di fare un salto, la tessera è vitalizia e costa 5 euro, e il posto merita davvero di essere visto, frequentato e supportato.

Banalmente. Hai iniziato con il jazzcore molto tempo prima di tanti. Che ricordi hai del primo Splatterpink, come nacque il progetto?

Diego D’Agata: Il mio retaggio musicale passato è la new wave, ho cominciato ad ascoltare musica seriamente nel 1980 o giù di lì, quindi puoi capire. Nonostante ciò, anche all’interno di quel genere ne ho sempre apprezzato gli aspetti più “irrequieti” e avanguardistici: più che gli Spandau o i Duran Duran, che mi facevano cagare, ero attratto da sonorità più schizzate, tipo Gang Of Four, Circus Mort, Cardiacs sopra a tutti, tutto il giro della Ralph Records e così via. A quei tempi suonavo in una band new wave e già stavo maturando un’idea tutta mia sull’uso e sullo sviluppo della ritmica e già allora tentavo di produrre cose che non fossero le solite quattro battute, strofa ritornello… ma con risultati spesso disastrosi. Lungo gli anni ho cercato il più possibile di svincolarmi dal genere e per farlo ho trovato un ottima soluzione nel cercare di imparare più che potevo a suonare il mio strumento e ad acquisire sempre più tecnica, era l’unico modo per non cadere nella cristallizzazione e poter dar vita all’idea di musica che avevo in testa. Poi è arrivato l’hardcore, in particolare i NoMeansNo, che dopo i Cardiacs furono il secondo gruppo a farmi letteralmente cadere la mascella e a farmi dire “hey, io è questa roba che voglio suonare!”. In quel periodo formai gli Splatterpink e presi a prestito il termine “jazzcore” da un articolo sui NoMeansNo che lo usò per definire la loro musica. Pensai che si adattava benissimo anche a ciò che stavamo facendo noi. Per quello che mi riguarda è un termine molto esplicativo, forse ancor di più oggi che in passato, visto che dagli anni ’90 anche il jazz è entrato prepotentemente fra i miei ascolti.

Cosa ti piaceva all’ epoca e cosa di quello che ti piaceva allora ti piace ancora oggi?

Non sono moltissime le band di allora che ancora oggi ascolto. Sicuramente i Cardiacs rimangono ancora un punto di riferimento immane. Quando mi sento malinconico adoro fare delle full immersion di Robyn Hitchcock e The Opposition, metto su i loro dischi e rimango lì, ad ascoltarmeli delle giornate intere, facendomi venire il moccio al naso e i brividi sulle braccia. Ascolto ancora moltissimo Residents e Snakefinger, Circus Mort, Gang Of four, The Stranglers, Magazine, Xtc. Provo invece una sorta di fastidio quasi fisico verso i gruppi dark o simildark, come Bauhaus, The Cure, And Also The Trees e tutta quella paccottiglia di mascara e capelli cotonati che una volta invece apprezzavo molto.

Ti piace la definizione jazzcore? Sì, no, perché? Chi ci metteresti dentro?

Come dicevo, sì. Ritengo la definizione jazzcore ancora applicabile. Mi piace perché in questi due termini si crea una specie di ossimoro stimolante: il rigore del jazz e l’ignoranza dell’hardcore. Chi ci metterei dentro? Boh, immagino tutti coloro che impieghino queste due attitudini entro un unico progetto. Jazzcore non è un “genere”, è un’attitudine.

Il tuo primo ricordo musicale?

Il mio primo ricordo musicale è il clubbino che avevamo formato a circa 15 anni, l’avevamo allestito nella cantina di un amico. Sai, i faretti colorati, lo stereo, eravamo in sei, fra cui Claudio Trotta, il batterista dei Testadeporcu. All’inizio era nato per portarci le ragazze ma in breve capimmo che non funzionava, eravamo troppo nerd e troppo piccoli perché ci cagassero anche solo di striscio, così non potemmo fare altro che destinarlo all’ascolto ossessivo di musica, in particolare due dischi che mi sono rimasti nel cuore: Pyramid di Alan Parsons e Breakfast In America dei Supertramp, due dischi eccezionali che ancora oggi ogni tanto ascolto. Il secondo ricordo musicale che ho è il synth che mi feci comprare da mia madre per la promozione in seconda media, un Korg MS10, a cui devo molto ancora oggi in quanto mi ha insegnato molto su vco, vca, filtri e via dicendo, solo che ai tempi non l’avevo preso per farci musica ma per fare gli effetti sonori quando giocavo coi micronauti. Ho cominciato a intuire poco dopo che era uno strumento che si poteva anche suonare. Dev’essere questo che ha sviluppato in me questo approccio ludico alla musica che ancora oggi mi porto dietro.

Un tuo eroe di ora?

Eroe è una parola grossa. diciamo che la persona che mi ha davvero cambiato un po’ la vita con il suo lavoro è David Foster Wallace, a mio parere l’unico vero grande Dio della Letteratura. Fin dalle prime pagine di Infinite Jest ho sviluppato una vera e propria ossessione, anzi direi una vera e propria magnifica intossicazione, e non ne sono più uscito. Un po’ come il samizdat, l’oggetto attorno al quale ruota tutto il romanzo. Potrei stare delle ore a parlare di lui e di quanto i suoi libri mi abbiano pesantemente influenzato, ma è meglio di no sennò chi si ferma più…

Una musica che proprio non ti va giù invece?

Detesto con tutte la mia essenza reggae, raggamuffin e combat folk, lo so, è un mio limite, ma non posso farci nulla

Bologna 25 anni fa e oggi. Affinità, divergenze?

25 anni fa Bologna era ancora una città senza paranoie, era divertente, libera, creativa. Potevi stare sveglio fino all’alba passando da un centro sociale a un bar a un club fino ad un altro centro sociale e per finire a giocare a freesbee in piazza Santo Stefano senza che nessuno chiamasse la pula. Poi sono arrivati i comitati antidegrado e la loro becera strumentalizzazione politica, l’edulcorazione piddina e il liberismo strisciante che non è altro che una nuova forma di fascismo, il decoro a tutti i costi, l’elezione del cibo come forma mentis unica di cultura locale, l’intrattenimento dettato “dalle regole” e ancora regole su regole che hanno ammazzato buona parte di quel fervore. Conseguentemente penso che anche la musica locale si sia adeguata a tutto ciò, mi viene in mente ad esempio lo Stato Sociale…

Ci parli dei Testadeporcu? I lettori di magari non vi conoscono.

Penso che i Testadeporcu siano il risultato finale di ciò che da sempre volevo ottenere. Minimali nella formazione, massimali nella musica. Come dicevo prima, c’è un approccio molto ludico e libero. Non siamo inquadrati in nessuno schema e fondamentalmente io e Trotta siamo rimasti i nerd che eravamo quarant’anni fa. Ci riteniamo due ricercatori puri e al contempo cerchiamo di divertire la gente e rifuggire dal manierismo e trombonismo in cui si rischia di cadere facendo questo tipo di musica. In ciò aiuta molto la nostra ignoranza di base che ci fa andare a culo con tutti.

Sabot, Ruins, Lightning Bolt, gli Wham, i Righeira, gli Eurythmics, gli Za!, gli Zeus. In due è meglio?

Sì, totalmente. A parer mio il duo è la formazione più bella che si possa vedere. Vuoi mettere la figata che è vedere delle basi ritmiche composte da due persone che suonano come quattro? E poi dai, è pure assai economica! L’unico requisito fondamentale è essere amici, ma amici veramente, quando viaggi in due, e noi viaggiamo parecchio, non hai intermediatori, devi essere in totale accordo. Per dire, io e Trotta non abbiamo mai litigato, mai, questo è importante.

E il prog? Lo ascolti, lo ascoltavi? Cosa, come, chi ?

Mai ascoltato il prog. Troppo barocco e manierista. Ha il potere di estenuarmi.

Cinque dischi da isola deserta?

Cinque sono pochi, fammene mettere almeno sei.
Direi: Greener Postures di Snakefinger, On Land And In The Sea dei Cardiacs, Hyderomastgroningen dei Ruins, Frizzle Fry dei Primus, Anatomy of A Groove di M-base Collective, Wrong dei NoMeansNo.

Se dico che il jazzcore a volte è semplicemente hardcore suonato dispari e con ottima padronanza ma di jazz nel verso senso della parola ha poco, tu che dici?

Te l’ho detto: jazzcore è suonare con il rigore del jazz e l’ignoranza del punk. Tutto il resto son sofismi.

Dischi jazz della vita?

Tutto Coltrane, tutto Mingus, tutto Steve Coleman. Questo trittico è già in grado di aprirti la mente come una scatoletta di tonno.

Dischi hardcore della vita?

NoMeansNo e naturalmente loro, Dead Kennedys. Diciamo comunque che nell’ambito punk-hardcore ho sempre e solo ascoltato roba americana. Il punk inglese mi ha sempre fatto schifo al cazzo.

Un gruppo della vita? Uno solo.

Direi i Testadeporcu.

Se il ritmo è alla base di tutto, o quasi, con l’elettronica come la mettiamo? Cosa ti piace? E in Italia, ieri ed oggi ?

Spesso sento dire che la musica in Italia fa cagare. Penso che non sia vero, perlomeno se togli quella miriade di inutili gruppi indie-sanremesi che stanno un po’ ammorbando la scena (e che fortunatamente ormai mi pare stiano anche andando incontro a un rapido declino dovuto a saturazione, tanto del mercato quanto dei maroni). C’è un sacco di roba buona in giro. Penso ai Cani Dei Portici, agli Hate & Merda e a praticamente tutto il cartellone dei due Krakatoa Festival, eventi che si sono rivelati veramente pazzeschi per tutti coloro che volevano conoscere roba italiana nuova e di qualità.

Quindi se capisco bene gli Splatterpink sono in frigorifero?

Per ora sì, sono un po’ congelati, nel senso che pur restando un progetto aperto è un po’ che non ci troviamo per provare. Però in cantiere abbiamo il “progetto cover” quindi ritengo che non siano da considerarsi propriamente non operativi.