JAC BERROCAL, DAVID FENECH, VINCENT EPPLAY, Exterior Lux

Come spesso accade, anche per Exterior Lux (incontro fra questi tre nomi del panorama “avanguardistico” in senso lato) scorrendo i solchi stiamo contemporaneamente aprendo una porta sul fitto universo di corrispondenze stilistiche che tanto ci piace seguire fino allo smarrimento. Il rischio, in sede di recensione, è di perdersi nei dettagli biografici piuttosto che nell’oggetto musicale in sé, con il dubbio perenne che la separazione fra le due entità sia poi impossibile da operare.

In questo caso le personalità in gioco sono importanti, per usare un eufemismo, e sono radicate in decenni di attività artistica e collaborazioni varie. La chiave di volta nominale, Jac Berrocal, è un artista multidisciplinare che nel corso della sua prolifica carriera ha spaziato dal teatro alla poesia beat, dal free jazz ad apparizioni più o meno sostanziali in alcuni dischi di Nurse With Wound (giusto per dare coordinate riconoscibili e riutilizzabili per decodificare Exterior Lux). Qui suona la tromba e, a volte, vocalizza frammenti fra la glossolalia e l’invocazione rituale, come in “Fuis Le Feu”, in cui i confini fra intelligibilità e regressione squisitamente “sonora” della parola si fanno sfumati con il progredire del minutaggio.

Il carattere di Jac permea la narrazione, è inevitabile: quando appare in una delle sue forme, l’attenzione dell’ascoltatore, anche per tutta una serie di meccanismi di registrazione e post-produzione, si focalizza su di lui; sarebbe però sbagliato non sottolineare la piacevole complicità e proporzione che si instaura fra i musicisti durante i 38 minuti che compongo l’album. Non dimentichiamoci che “sintetizzatori, percussioni, effettistica varia, sampler, field recordings e voci aggiuntive”, ovverosia tutto ciò che accompagna Berrocal o ne modifica il suono, sono condivisi dai due altri attori coprotagonisti, Vincent Epplay e David Fenech. Il primo è principalmente un artista visuale e compositore di colonne sonore, curatore, tra le altre cose, della copertina di Exterior Lux e dei precedenti dischi del trio (Ice Exposure del 2019 e Antigravity del 2015, entrambi su Blackest Ever Black), mentre il secondo lavora nei territori stemperati fra field recordings, tape music, improvvisazione e musique concrète.

Durante l’ascolto i rapporti dinamici, sia fra i tre, sia fra gli strumenti a loro disposizione, oscillano in maniera più o meno percettibile, influenzando il contenuto sonoro dei brani. Tutto è sempre ammantato da un senso di precarietà, nonostante l’ossatura ritmica, ricorsiva, quasi ipnotica, si ripresenti come una costante: le singole parti che compongono le tracce si sfaldano l’una nell’altra, degradate dall’uso intensivo di delay, riverberi e distorsioni. I punti di riferimento saltano rapidamente e quello che fino a poco prima poteva apparire come uno strano rituale dub, si frammenta in ticchettii ritmici stereofonici e campionamenti proto-industrial.

L’equilibrio fra gli attori porta con sé, purtroppo, anche degli aspetti negativi che si manifestano nei momenti più caotici del disco, dove l’alchimia lascia il posto a un collage tanto variopinto nella forma quanto scarno nel contenuto. Piccola nota dolente in un lavoro per il resto valido, da considerare anche come chiave d’accesso al labirinto di connessioni e rimandi a cui accennavamo prima.