It’s all about finding the right colours that a piece needs: intervista a Oren Ambarchi

Oren Ambarchi, foto di Crys Cole

Il musicista australiano a breve passa per il friulano FORMA Festival. Oren Ambarchi in realtà è di casa dalle nostre parti, ce lo conferma in questa intervista, nella quale si prova a fare un ritratto, seppur breve, di un signore che ha inciso così tanti dischi e portato avanti talmente tante collaborazioni che per raccontarne in modo dettagliato ci vorrebbe una monografia. Intanto vi basti sapere che è uscito da poco un suo album collaborativo con Kassel Jaeger e James Rushford dal titolo “Face Time”. Ambarchi ha anche una sua etichetta, Black Truffle Records, con in catalogo uscite parecchio di nicchia, come quella recente di Massimo Toniutti, e in passato ha dato spazio a numerose altre ristampe, oltre ad altrettanti dischi inediti. Bene, gli intenti dell’intervista sono quello di farvi venire un po’ di curiosità sul personaggio e quello di convincervi a passare a Udine, al Teatro San Giorgio sabato 3 novembre; con lui nomi mica da poco come i Demdike Stare e Nicola Ratti.

Oren, non sei il solito musicista che suona un solo strumento. Come tutti sanno, sei un polistrumentista: suoni chitarre, synth, a volte la batteria, magari anche un laptop… Perché questo desiderio di “autarchia”? Per necessità o circostanze personali?

Oren Ambarchi: Per prima cosa voglio specificare che non uso mai un laptop per fare musica, lo uso per controllare la mia posta elettronica. Poi sì, uso tutto ciò che è necessario per far funzionare un pezzo. Tutto sta nel trovare i colori giusti dei quali un pezzo ha bisogno. Il mio amico Jim O’Rourke ha imparato come suonare il trombone solo per una piccolissima parte del suo album The Visitor, sentiva che il brano ad un certo punto aveva bisogno del trombone, così ha dovuto imparare lo strumento in modo da poterci includere quella tonalità, e io davvero posso capirlo. Ricordo che andai a comprare una chitarra acustica per il mio album Remedios The Beauty, e non credo di aver mai suonato quella chitarra acustica da allora.

Lavori anche in molti modi diversi, e con musicisti diversi tra loro. In generale, queste collaborazioni nascono spontaneamente o cerchi uno specifico artista con qualcosa già nella tua mente? Segui alcune regole creative quando inizi una nuova collaborazione o il processo cambia con ogni artista coinvolto?

Di solito si diventa amici con qualcuno e ci si entusiasma a lavorare insieme. È così che accade per la maggior parte delle mie collaborazioni. Tuttavia, a volte sento qualcosa che fa una persona in particolare e ne ho bisogno per una sezione di un pezzo. Per esempio su “Hubris Part 3”, volevo avere un tocco di chitarra che avesse un feeling più “no-wave”. Così sono partito registrando una parte in cui imitavo la chitarra di Arto Lindsay. Poi ho pensato: “Perché sto facendo questo? Dovrei solo chiedere ad Arto di farlo!”. Così gliel’ho chiesto ed ha suonato la sua parte. Lui era molto meglio di nell’impersonare Arto Lindsay (ride, ndr)

Anni fa ho assistito ad una tua esibizione a Bologna (al Teatro San Leonardo), eri col film-maker sperimentale Roberto Nanni. Quali sono i tuoi ricordi di quell’esperienza? E perché lavori spesso con artisti italiani?

Ah wow, è stato tanto tempo fa! Ricordo che Stefano Pilia, che organizzava quello spettacolo, mi raccomandò di lavorare con Roberto perché il festival aveva un tematica legata all’audiovisivo. Generalmente non mi piace avere immagini quando suono ai concerti, perché trovo siano una distrazione e tendono a mettere il pubblico in uno stato passivo. Preferisco che il pubblico ascolti attivamente quando suono. Ma Roberto era adorabile ed è stato bello lavorare con lui in un maniera collaborativa. Ricordo pure che in quell’occasione ho usato lo stesso ampli “Ampeg Bass” che John Paul Jones aveva usato nell’unico concerto italiano dei Led Zeppelin, quello del 1971 a Milano. È stato davvero eccitante per me. A quanto pare suonarono solo 24 minuti in quello show e poi ci fu una rivolta. Dopo, non hanno mai più suonato in Italia. Ho lavorato con artisti italiani e sono stato in Italia molto spesso negli ultimi tempi. Adoro veramente l’Italia (il cibo specialmente) e adoro collaborare, quindi la combinazione è perfetta.

Con la tua etichetta discografica, la Black Truffle, pubblichi cose nuove, ma fai anche delle speciali ristampe: in catalogo ci sono nomi importanti come AMM, Alvin Curran, 3/4HadBeenEliminated, Kang & Kenney, Will Guthrie … Ho una preferenza per “La Mutazione” di Giancarlo Toniutti, lo considero un album essenziale e dunque una ristampa necessaria. Come scegli cosa pubblicare e come sei entrato in contatto coi suoni di Giancarlo Toniutti?

Mi piace pubblicare cose di cui sono davvero entusiasta e che a volte includono registrazioni – che magari non sono disponibili, o sono fuori stampa o in qualche modo sono ignorate – di versioni che ritengo che più persone dovrebbero avere la possibilità di ascoltare. Il disco di Toniutti è stato sicuramente uno di quelli. Sono davvero entusiasta del fatto che ho appena pubblicato un album del 1991 di Massimo Toniutti, Il Museo Selvatico, in versione doppio lp, e con materiale extra di quel periodo. Questo disco è un capolavoro, che più gente ha bisogno di ascoltare! Sono fiducioso che lo faranno grazie a questa ristampa.

A novembre sarai in Italia al FORMA Festival. Ti piacerebbe rivelare qualcosa sulla tua performance lì?

Non sono esattamente sicuro di cosa farò, ma sarà una performance di sola chitarra. Ultimamente sto esplorando un nuovo set che incorpora due chitarre (una è su un tavolo), spero di svilupparlo in modo da poterlo provare al festival FORMA. Restate in attesa!