INTENSIVE CARE and THE BODY, Was I Good Enough?
Dopo il disco da 10 dei Full Of Hell + Andrew Nolan volevo proprio sentire quello tra The Body e Intensive Care (Andrew Nolan con Ryan Bloomer, entrambi ex Endless Blockade, pare oggi un trio dal vivo con l’aggiunta di Eric King, altro ex Endless Blockade), una roba che si preannunciava meganoise-megadub e in effetti è meganoise e megadub, con più di qualche aggancio ritmico/percussivo coi primi Godflesh. Tutto è sempre pesante oltre ogni sopportazione, le basse frequenze sono deformi fino a far male, le alte sono aghi che trapassano gli occhi, per non parlare delle urla ingestibili di Chip King dei The Body, qualcosa a cui credo di non potermi mai abituare. Eppure ogni pezzo ha qualche passaggio di batteria diverso, campionamenti/effetti/suoni particolari che screziano il macigno che ti sta cadendo in testa, tipo cartone animato, tipo sì, sto pensando a Willy Coyote che muore sotto al masso del Gran Canyon. Questo fino alla chiusura “Mandelbrot Anamnesis”, ondate potenti di malessere che ripagano da sole la spesa per il disco.
“I think another similarity between The Body and Intensive Care is that describing music as either extreme or experimental is not meaningful to us as creators or listeners”, dice Nolan in un’intervista. Gli fanno eco i The Body: “I think we both are big music fans and mainly fans of a wide range of genres so the list of influences is pretty broad, I think we both do a good job of touching on a lot of those instances in our own music and in this collab”.
Nolan può dire quel che vuole, ma io credo che questo disco sia estremo, nel senso che l’ascoltatore medio manco ci pensa a prenderlo, mentre quello abituato al sangue e alla merda va comunque in difficoltà, perché Was I Good Enough? è trasversale, per questo capisco quando sempre Nolan sottolinea in un’altra intervista che la collaborazione prova a trovare un minimo comune denominatore tra gli approcci dub, hip hop e industrial, tutti e tre in origine nati dalla povertà di mezzi tecnici ed economici, dunque dalla necessità del riutilizzo creativo di materiale pre-esistente: questo apre di sicuro nuove strade rispetto al provare a suonare “un” genere, vie che in passato sono state già percorse dalla sacra triade Justin Broadrick – Kevin Martin – Mick Harris.
Mettetelo in lista, spendeteci qualche lira.