In memoria di Bob Rutman

Bob Rutman, foto © Dirk Bleicker
Bob Rutman, foto © Dirk Bleicker

È morto a Berlino, all’età di 90 anni, l’artista e scultore sonoro Bob Rutman. Una retrospettiva della sua straordinaria vita in musica.

Bob Rutman ha attraversato la storia ed è rimasto ostinatamente sé stesso; ebreo nato a Berlino nel 1931, costretto a fuggire dai nazisti nel 1938, Rutman emigra prima in Inghilterra, poi, negli anni ’50, negli Stati Uniti, dove trova una patria d’elezione, abbandonata per tornare in Germania poco prima della caduta del Muro. E a Berlino, dov’era iniziata, la sua Odissea si è conclusa il 1° giugno, quando si è spento all’età di 90 anni dopo una lunga malattia.

Rutman lascia un grande vuoto nella Capitale tedesca, dove negli ultimi trent’anni era diventato un punto di riferimento per chiunque cominciasse ad esplorare il mondo dell’arte: con i suoi numerosi concerti, le mostre di sculture e dipinti, e soprattutto grazie alle sue frequenti collaborazioni con musicisti e performer di ogni background, dal jazz al Butoh passando per il noise.

La dimensione collettiva era uno dei cardini della sua pratica musicale, che nasce come opera partecipativa, performativa e fondata sull’improvvisazione. Nel 1968, conclusa la sua parentesi da gallerista a Soho, Rutman si trasferisce da New York nel Maine fondando il collettivo Central Maine Power Music Company insieme a Constance Demby e Dorothy Carter. Ispirato proprio dallo “Space Bass” della Demby (che svilupperà le potenzialità dello strumento in una direzione ambient e new age), Rutman crea le sculture sonore che lo renderanno famoso: lo Steel Cello e il Bow Chime.

Lo Steel Cello è formato da una sottile lastra di metallo tesa lungo un’asta che supera i 2 metri e che funge da corda da sfregare con un archetto, su cui premere in punti diversi per ottenere suoni di diversa altezza. Misterioso e imponente come un monolite kubrickiano, è una scultura impressionante in grado di emettere un’ampia gamma di suoni, da note alte e sostenute come uno strumento ad arco fino a drone profondi e tonanti.

Il Bow Chime, variazione dello Steel Cello dalle dimensioni più contenute, è dotato di una serie di aste metalliche disposte in orizzontale, che si possono percuotere ottenendo un suono che si potrebbe descrivere come un bell chime atonale.

Queste sculture sonore nascono come strumento performativo degli happening del Central Maine, al cui elemento teatrale si aggiungerà presto la dimensione multimediale, grazie alla collaborazione con il videoartista Bill Etra, definita dal gruppo stesso come una “polifonia” di media.

Dopo una serie di concerti in America, purtroppo non documentati, il collettivo si scioglie e Bob fonda l’U.S. Steel Cello Ensemble, attivo a periodi alterni fino al 2020. La sua direzione musicale si orienta verso la classica contemporanea e la contaminazione con la tradizione orientale; non si deve dimenticare, infatti, che Rutman era cresciuto artisticamente nella New York di fine anni ’50, dove aveva avuto occasione di conoscere Cage tramite Merce Cunningham. In un’intervista all’inizio degli anni ’70, Rutman descrive così la sua pratica musicale:

Just as there are degrees of good orchestral music, so there are also different degrees of not music. We try through constant self-exploration and practice with the instruments to develop something cohesive and moving. But it can easily turn into discordant chaos if we’re not turned in to each other. But then that’s a reflection of life.

Considerandosi un “non musicista”, Bob era ostinatamente refrattario alle prove: probabilmente a torto, dato che le eccezioni che confermano la regola sono le sue opere migliori. L’episodio più strutturato e maturo della rarefatta discografia di Rutman è “Noise in the Library” dell’U.S. Steel Cello Ensemble, originariamente pubblicato in cassetta nel 1989 dall’etichetta di Bob, Rutdog Records, e ristampato nel 2018. I quattro pezzi che lo compongono, eseguiti in concerto alla Passionkirche di Berlino, non sono improvvisazioni ma vere e proprie suite nate dalla collaborazione di Bob con la line-up più affiatata del suo Ensemble, formata dall’amico di lunga data Daniel Orlanksy e dai tedeschi Alex Dorsch e Stephanie Wolff.

In questa registrazione sono immortalati tutti i capisaldi della musica di Bob: la lenta successione di texture sonore che si sovrappongono ricordando Ligeti, raffinate variazioni di dinamiche, intervalli percussivi, atmosfere sacrali e una sintesi tra avanguardia occidentale e tradizione orientale, nel canto difonico intrecciato di Rutman e Wolff.

Un lato inedito e più luminoso della musica di Bob si ascolta invece nella collaborazione con Dorothy Carter, altra artista criminalmente sconosciuta ai più, culminata nel cult “Wailee Wailee” pubblicato da Rutdog Records nel 1978. Come raccontava lo stesso Bob, durante le registrazioni del disco la Carter lo aveva diretto puntigliosamente nel creare le tracce in cui suonano insieme, “Tree of Life” and “Summer Rhapsody”.

Lo Steel Cello fa da perfetto contraltare alle armonie angeliche dell’hammered dulcimer e del salterio della Carter, valorizzandone le tonalità e creando un inedito, e riuscitissimo, accostamento tra sonorità contemporanee e strumenti medievali. Del resto, Rutman aveva definito le sue sculture “American industrial folk instruments” in grado di creare “un suono che, allo stesso tempo, è il suono del passato e del futuro”.

Bob Rutman, foto © Anna Motterle
Bob Rutman, foto © Anna Motterle

La musica di Bob ha una forte tensione al trascendente, unita a una dimensione molto terrena. Per Rutman fare musica è la ripetizione di un gesto, un’esplorazione tattile dei materiali e dei suoni che quest’ultimi emettono: è un fare artigianale in una dimensione intuitiva, ostinato e primordiale come i gesti degli scimmioni di Kubrick che percuotono le ossa sulla terra. L’umanità primitiva della sua musica è al tempo stesso gioiosa e tragica: gioiosa, perché nasce da un approccio non mediato a creare, e tragica perché trasfigura e sublima le esperienze di un testimone che ha vissuto in prima persona il Novecento, dal nazismo all’avanguardia americana post-bellica, fino alla caduta del muro di Berlino.

Dalle registrazioni, dal vivo o in studio, non si coglie però un altro elemento fondamentale della musica di Rutman: l’umorismo. Bob non si prendeva mai sul serio e amava sdrammatizzare la gravità dei suoi concerti – e spiazzare il pubblico – recitando con piglio serissimo poesie sulle scoregge (“Here I am/broken hearted/came to shit and only farted” era una delle sue preferite), suonando dei polli di gomma o intonando canzonette oscene. L’effetto era straniante, rompeva la tensione e nei momenti più riusciti toccava una sintesi di assurdo e sublime che ricordava quasi un pièce di Beckett.

Rutman era animato da un fiero spirito irriverente e guardava raramente al passato, impegnato com’era a vivere il presente e l’immediato futuro. E nonostante le infinite traversie della sua lunga vita, non si era mai sentito definito o limitato dalla sua storia, al contrario: ne sapeva ridere divertito.

My whole life was a holiday, because I have always done what I wanted