Imparare qualcosa ogni giorno. Intervista con Enrico Gabrielli su 19’40”

19’40” è un’etichetta partorita dalla fervida immaginazione, dall’enciclopedica conoscenza e dall’onnivora curiosità musicale di tre menti italiane in fiamme: Enrico Gabrielli (ha suonato semplicemente con tutti in Italia, ora è in squadra con Pj Harvey, tra le mille cose), Sebastiano de Gennaro (percussionista extra-ordinario che ha lavorato con il primo Edda e molti altri, e adesso gira in tour con  Baustelle e Daniele Silvestri) e Francesco Fusaro (musicologo trapiantato a Londra). Nell’epoca per eccellenza dell’ascolto superficiale e distratto, i nostri sono salmoni che risalgono la corrente e propongono un ritorno a una dimensione esperienziale, profonda, quella di chi si prende il tempo necessario per l’ascolto. Musica come bene primario, dunque, e allora cd (tre, ad oggi, le pubblicazioni) con confezioni curatissime e libretti che fungono da vere e proprie guide, e l’idea della collana a cui abbonarsi con una sottoscrizione, che permette di ricevere comodamente a casa un disco a cadenza quadrimestrale. 

Abbiamo incontrato Enrico Gabrielli in un pomeriggio di metà settembre, proprio mentre stava per ficcarsi in studio a Bologna…

 … a fare cosa?

Enrico Gabrielli: Sto lavorando da all’incirca una quindicina d’anni a una mia opera lirica. Ci saranno due versioni, una con rappresentazione scenica e un ensemble ampio, mentre in quella da studio suono tutto io e Vincenzo Vasi è la voce del protagonista, Inshallah. La storia è la parafrasi di un racconto da “Le mille e una notte”, scritta a sua volta da Michael Ende, e parla di un mercante punito da Iblis, che lo mette in una stanza con 111 porte, una sola delle quali lo condurrà alla salvezza. Musicalmente è uno strano oggetto, presumo che uscirà con 19m40s. Spero di finirla presto, mi piacerebbe farne un film alla Rosi, come la Carmen di Bizet, quasi un musical. Sono un po’ confuso, perché anche io sono in una fase di laboratorio, per cui non riesco a spiegartela meglio di così. 

“Ora non ho più bisogno di un pianoforte: ho la 6th Avenue con tutti i suoi suoni”, diceva John Cage. Mi commenti questa frase collegandola all’estetica, alle intenzioni e all’attitudine della vostra etichetta?

È bellissima questa frase, ci aggiungo un’informazione: recentemente ho letto “Il segreto” di Joe Gould, un libro abbastanza famoso negli States, che parla di un altro personaggio della New York di quegli anni, un altro di questi tipi assurdi, che voleva scrivere una storia dell’umanità per dialoghi. Questo barbone voleva andare in giro e trascrivere tutti i dialoghi colti per strada e di questi farne un libro: era uno dei tanti soggetti un po’ sbalestrati che animavano il Greenwich Village all’epoca, testimoni dell’ultima vena bohemienne che prendeva spunto dalla Parigi di inizio secolo. Secondo me John Cage è uno che ci si è nutrito di quella roba là, in realtà lui a volte sconfinava pure con l’homeless, era uno che non aveva radici specifiche, si nutriva molto di cultura dell’Est, poi viaggiava, andava in giro; quando venne in Italia per la famosa storia della tv (fu ospite a Lascia o Raddoppia di Mike Bongiorno come esperto micologo), si attaccava, scroccava case a destra e sinistra, la gente qua non lo sopportava più. Non vorrei fare un azzardo, ma credo che fosse una specie di Forrest Gump del Novecento, un viaggiatore, un grande utopista, una persona che viveva alla giornata anche concettualmente. Tutto quello che aveva imparato era frutto di vita vissuta: era un tipo dunque molto simile a Moondog, pur essendo diverso nell’applicazione concreta. Moondog era un outsider vero, gli è scoppiata una bomba in faccia, è diventato cieco, Cage invece stava al confine tra l’intellettuale integrato e l’outsider e questa è una cosa che noi dell’etichetta sentiamo senz’altro spiritualmente vicina.

L’etichetta si chiama così per quello. Nasce da un disco che facemmo io e Sebastiano De Gennaro, intitolato proprio 19’40”, un vinile con brani del 1940, dove il primo lato si chiamava 1940 e il secondo 19’40”. Di quella esperienza abbiamo mantenuto il nome, perché il tempo, la data, il numero, sono oggetti simbolici interessanti. Per noi 19’40” è un tempo oggettivo e soggettivo al tempo stesso. Il fatto che noi abbiamo l’orologio non significa che il tempo esista di sicuro, mentre quello soggettivo esiste per certo, ha un fondamento neurobiologico (da qui poi andiamo alla deriva, una delle tante, parlando di “Musicofilia” di Oliver Sacks che racconta, tra i tanti casi strabilianti, quello di un uomo che dopo essere rimasto fulminato, si ritrovò a saper suonare, senza averlo mai fatto prima, il pianoforte,  e di altri libri, ndr).Essendo la musica l’arte del tempo, tempo e musica sono la stessa cosa, per questo noi ci chiamiamo così. 

Allora in un qualche modo voi tre siete dei fulminati dalla musica?

Probabilmente il più fulminato è Sebastiano, nel senso di stupefatto dalla musica. È una persona entusiasta, che ha continui Eureka!, con una grande capacità di mettere in pratica le idee, in grado di fare un bellissimo lavoro di fusione tra percussioni ed elettronica. Francesco Fusaro invece è un musicologo di formazione.

E come vi siete incontrati?

Francesco Fusaro venne a casa mia perché voleva scrivere un articolo sulla scena della musica contemporanea in Italia e a Milano nello specifico, scena da cui ero uscito (Gabrielli ha studiato composizione al conservatorio, ndr) e in cui, in seguito a quella intervista, rientrai per altri due anni di studio. La scena della contemporanea pura assomiglia alla filatelia, è superspecialistica e molto bloccata, anche se i processi compositivi sono spesso straordinari. Nel 1995, avevo 18 anni, feci una masterclass a Città di Castello con Salvatore Sciarrino, e lì c’erano, tra gli altri, Francesco Filidei (visto di recente all’organo per Angelica con Roscoe Mitchell) e Daniele Faraotti.

Francesco Fusaro vive a Londra, dove fa il dj di musica classica, ha un programma bisettimanale su NTS Radio, Tafel Musik, dove mixa con lo stesso concetto della dance, lui è superesperto e molto aperto, un vero musicologo moderno; è molto legato alla  scena alternative classical music europea o non classical, dove si muovono artisti come Gabriel Prokofiev (il nipote del Sergej di “Pierino e il lupo”), che ibrida ad esempio facendo concerti per turntable e orchestra. Quest’anno allo Sziget, in Ungheria, c’era un palco di classica e di opera, l’ho visto mentre eravamo lì con Pj Harvey.

Il fatto di decontestualizzare la classica le dà molta più potenza: la musica non può prescindere dal contesto, non c’è nulla da fare, se sei in un luogo cambia completamente la percezione che hai dell’ascolto. Quindi lavorare su questo porta a interessanti ibridi. Fare un concerto di Steve Reich è molto più efficace in una fonderia o in un luogo frequentato da giovani: il problema spesso sono i costi o i corridoi culturali. Quest’anno al Mi Ami abbiamo fatto un esperimento e con Esecutori Di Metallo Su Carta abbiamo fatto il nostro concerto: alieni, non so se nel senso migliore del termine. Ricordo ancora quest’affermazione tremenda di Vasco Brondi, che appena finimmo, in camerino, disse: “Certo che fate veramente musica scacciafiga”. Evidentemente la tua ironia vuole pungere e se vai a beccare proprio su una frase così, o sei tu fuori strada o siamo fuori strada noi. Quindi qualcosa non va, nella relazione col mondo del pop alternativo.

Forse perché si tratta di musica più interessata ad “attrarre la figa” che a fare qualcosa di qualitativamente pregnante?

Evidentemente su questo si basano meccanismi commerciali più grossi dei nostri, per cui ci rassegniamo, arrivederci e grazie, però credo che dal punto di vista culturale questa sia una operazione vanesia e culturalmente riprovevole, uno come lui prende come modelli Pasolini, CCCP e Majakovskij e pubblica per Rizzoli, e allora poi frasi così stridono parecchio, no? Se parli di sesso in questi termini stai facendo un casino con te, con noi, con tutti. Lui rappresenta molto bene in realtà un principio molto condiviso da molti della scena discografica: noi eravamo lì a fare musica per i maschi, cervellotica, intellettuale. È stata una buona cartina di tornasole quell’esperienza, quindi, interessante da capire.

Tra l’altro in quel disco, voi fate un brano degli Zu (“Mimosa Hostilis” da Carboniferous, apice della discografia del trio sia per me che per Gabrielli, pezzo molto riuscito, forse ancora più potente dell’originale, ndr). Ai loro concerti  non dico che si poghi, ma si vede gente fare headbanging e comunque c’è una dimensione fisica molto accentuata.

Assolutamente. Da quelle parti secondo me ci sono un paio di menti compositive, Luca Cavina degli Zeus!, Massimo Pupillo di Zu, che, pur venendo da un percorso che nulla ha di accademico, sono molto solide: una volta che stendi su carta e trascrivi per ensemble i loro pezzi ti accorgi di quanto siano rigorosi. La loro musica somiglia alla classica contemporanea. Loro, col puro istinto, provenendo da ascolti di industrial e metal, hanno creato un oggetto sonoro molto compatto. 

Come nasce il progetto di Esecutori Di Metallo Su Carta?

In quel periodo ero in fase di allontanamento dallo studio accademico puro, ed ero convinto che ci fosse un problema di formazione pedagogica nei conservatori. Volevo dimostrare che anche se non hai una formazione classica puoi creare cose musicali somiglianti. Spesso la musica accademica ha un problema di empatia, non arriva all’ascoltatore, questi pezzi invece in qualche maniera sono caldi, comunicativi, anche se io non sono mai riuscito a farlo sentire al mio maestro di composizione, non lo capirebbe. 

Che ascoltatore ipotetico immaginate per la vostra etichetta? 

La nostra intenzione è di avere a che fare con  persone ingenue, ma permettimi di precisare meglio questo aggettivo. Persone capaci di farsi sorprendere, senza tabù, prive di autolimitazioni.

Io sono un ascoltatore compulsivo di Radio 3, l’unica cosa per cui sarei disposto a incatenarmi ai cancelli della Rai, se dovesse succedere qualcosa. Ogni giorno impari qualcosa, ascoltandola. Ecco, io vorrei delle persone con questo tipo di spirito. Noi lavoriamo sul fatto che ti devi fidare: ti arriva un disco ogni quattro mesi e sono cose molto diverse tra di loro; l’unico trait d’union è il rapporto con la scrittura musicale, con lo spartito, che sia sabotaggio, trascrizione, calco o filologia. Abbiamo deciso di non lavorare con l’improvvisazione, non perché non ci piace, solo perché abbiamo scelto un’altra strada. Il primo disco è dunque una trascrizione, il secondo è di esecuzione pura, il terzo è di musica contemporanea. Il quarto sarà Pictures Of An Exhibition di Mussorgsky. Abbiamo ripreso la versione di Emerson, Lake & Palmer e le abbiamo dato una sistemata. L’occasione è arrivata dall’incontro col vj australiano (da molti anni a Milano) Andrew Quinn, che ha fatto una versione coi visuals (in modalità sound reacting) dell’opera. Lui, che – per intenderci – è stato uno degli effettisti speciali di Matrix, mi propose di farne una versione utilizzando il disco di EL&P. Allora abbiamo deciso di creare un ibrido tra quella interpretazione e l’originale, e questo sarà il prossimo disco, in uscita a dicembre. Ne abbiamo già 23 (!) in cantiere, già progettate, e 10 (!) in fase di lavorazione, che devono essere registrate. Poi sarà il turno di The Planets di Gustav Holst, che sta per essere registrata al padiglione francese della Biennale di Venezia, il 30 e 31 ottobre. Sono onorato di essere tra gli invitati. 

Non è che un seme di tutte queste robe c’era già in “Vamps Di Rumore”, quel pezzo dei Mariposa con quel finale molto reichiano?

Quello è Michele Orvieti, che è stato il primo a portarmi all’attenzione la musica minimalista. Eravamo compagni di liceo musicale ad Arezzo: io, lui e Alessandro Fiori. I Mariposa sono stati il mio laboratorio creativo.

Nei vostri libretti si percepisce una cura molto approfondita.

La nostra collana si rifà a quella di vinili della Curci degli anni Settanta, l’idea è quella di fornire un contesto per la musica decontestualizzata.

Fornire una tuta spaziale a chi vuole farsi il viaggio da astronauta, insomma.
In che senso la musica di Esecutori Di Metallo Su Carta è per voi musica folklorica (nel libretto c’è una frase di Francesco Fusaro in proposito)? 

È difficile esprimersi in generi. Un grande come Franco Fabbri (musicologo e musicista negli Stormy Six) ci si è spaccato la testa, su questa questione. Nei grandi macrosistemi, dal metal al punk, al progressive e alla musica popolare, quella è popular music, folk. Se guardi la terra da lontano, gli Aucan stanno insieme a Giovanna Marini. C’è una grande divisione tra musica classica (scritta su spartito) e musica folklorica, non scritta. Io sono un grande appassionato proprio della scrittura su carta, non uso il digitale. 

Esecutori Di Metallo Su Carta

Quanto ci è voluto per trascrivere tutte le parti di Esecutori Di Metallo Su Carta? 

Ci ho messo poco a trascrivere, in una ventina di giorni ho fatto tutti i pezzi, quindi circa un paio di giorni a pezzo. L’arrangiamento puro ha richiesto poco tempo, quattro giorni in totale per tutti i pezzi. Il lavoro lungo è fare le varie parti per gli strumenti. 

Come hanno reagito i musicisti coinvolti come autori in questo progetto generativo? 

Quando abbiamo presentato dal vivo la prima volta i pezzi al “Fuck Bloom! Alban Berg!” al Bloom di Mezzago era presente una delegazione ed erano tutti molto contenti. In un qualche modo si tratta di un procedimento affine a quello del regista Gus Van Sant quando ha rifatto “Psycho”: è l’operazione che vince, in qualche maniera. 

Voi dunque vi muovete in una sorta di mondo parallelo dove trovano posto Hindemit e gli Autechre, gli Aucan e Giovanna Marini. Siete dunque dei grandi ottimisti! Trovate molti simili attorno a voi, come va con le sottoscrizioni? 

Diciamo che facciamo una selezione naturale senza fare grande fatica, spediamo il disco da casa, non abbiamo potenti mezzi né un ufficio stampa, facciamo tutto da soli. Gli esiti sono in crescendo, quando finiscono gli abbonamenti c’è gente che rinnova perché si è fidelizzata, per cui capiamo che c’è sincera  ed onesta voglia da entrambe le parti  di trovare e dare una casa. 

Etichette e realtà che sentite affini, in Italia ed in Europa?

La Nonclassical di Prokofiev, in Inghilterra, fa cose interessanti, più sexy probabilmente, tendenti alla dance, soprattutto come happening fanno cose interessanti, poi ci sono cose affini ma meno interessanti come Nils Frahm a Berlino o Nico Muhly a New York, che secondo me sono un po’ più un bluff, ma appartengono comunque a questo mondo in cui volenti o nolenti dovremmo inserirci.
C’è un bellissimo festival a Rotterdam che si chiama Classical Next, dove l’anno prossimo vorremmo andare. In Nord Europa c’è un contesto favoloso per la musica.
I musicisti italiani, però, quando sono bravi, hanno un livello di inventiva e di visione complessiva formidabile: noi siamo di quelle erbacce che crescono nelle cementificazioni, per cui siamo belli robusti. Il problema grosso nostro è che siamo pessimi nelle strutture di accoglienza, i nostri festival sono fatiscenti, le nostre sale da concerto sono chiuse e i nostri club sono bruttini.

Cosa bolle in pentola per quanto riguarda i live?

Per tre domeniche di dicembre, 3, 10 e 17, faremo la seconda edizione del festival Contemporarities al Santeria Social Club a Milano. Faremo tre episodi di “Twilight Zone” con le musiche di Bernard Herrmann dal vivo, nel secondo appuntamento, in concomitanza con una mostra di Lerici, faremo “Professor  Bad Trip” di Fausto Romitelli, Arvo Pärt e altro; nell’ultima, invece, con Calibro 35 ed Esecutori Di Metallo Su Carta insieme su palco, una retrospettiva su Paolo Renosto, un compositore coevo di Maderna che col suo alias Lesiman faceva library music. Forse si tratta della prima retrospettiva su questo compositore. 

Fauna presente alla prima edizione di questo festival? 

Popular e rocchettara. Gli addetti ai lavori e i miei compagni della classe di composizione non c’erano. Vediamo, stiamo ancora scavando per creare le basi di una casa. Siamo ancora nella fase della costruzione di un pubblico. Stiamo cercando di percorrere la strada della classica, a me interessano gli anziani, mi piacerebbe vedere teste canute in sala, quando succede è bellissimo. Con l’orchestra di liscio (L’Orchestrina di Molto Agevole), ad esempio, noi cerchiamo proprio i vecchi. Se non sanno ballare, non li vogliamo. 

I Dischi

Esecutori Di Metallo Su Carta, Progetto Generativo

Esecutori Di Metallo Su Carta, Histoire Du Soldat (Igor Stravinskij)

Sebastiano de Gennaro, Il Picchio 

La furia di Zeus! suonata da un ensemble acustico con oboe, clarinetto basso, trombone, violino, percussioni e piano. Decontestualizzare, lo dice Gabrielli nell’intervista. Un sestetto, questo degli Esecutori Di Metallo Su Carta, che si cimenta con dieci pezzi di band italiane di area grossomodo math, avant, psichedelica. Follia? Sacrilegio? Nevrosi da nerd da spartito che sfogano la loro repressione accademica? Nulla di tutto questo, semplicemente al contrario un disco fresco e coraggioso, che ci svela un nuovo modo di guardare le cose. Gli Zu suonano forse classica contemporanea? Alzi la mano chi mai si è azzardato a pensarlo, ma basta ascoltare la nuova forma assunta da “Mimosa Hostilis” in questo disco. Gli ostinati metallici e le sincopi minacciose e ossessive marchio di fabbrica dei jazzpunk romani trovano nuova vita in questo arrangiamento e forse addirittura suonano ancora più potenti. Sì, perché meno prevedibili e quanto più spiazzanti, con questa paletta timbrica. Lo stesso dicasi per il pezzo dei Morkobot, che potrebbe tranquillamente figurare nel programma di uno dei compositori più selvatici che hanno sciorinato la loro pazza sapienza nei dischi su Tzadik della serie “Composers”. “Response” di Hobocombo, invece, sembra qualcosa di Pago Libre, lo straordinario gruppo aperto in bilico tra jazz e classica di Arkady Shilkloper, e la musica è cinemagica anche in questo caso: delicatissime reiterazioni minimaliste, un incedere rotolante e sospeso, un quadro impressionista sussurrato ed efficacissimo. Un haiku di rabbia e rigore è invece “Composizione 1” del duo Meteor, che rapprende in un minuto esatto la lava di un vulcano. Palma del miglior brano a “Tarazed” di Julie’s Haircut, che assume un respiro largo e straniante, riportandoci ai semplici, perfetti, meravigliosi meccanismi ipnotici di Terry Riley e Steve Reich.

“Avvolgi le tue intenzioni in un manto di aghi di pino”, diceva Yamamoto Jinuemon, un guerriero giapponese della fine del 17° secolo: devozione alla causa, impegno maniacale, grande controllo e capacità di dosare perfettamente le forze,  le stesse stelle polari che hanno guidato un ensemble di spericolati samurai nella realizzazione di questo disco. 

“Is it you/It is me/Behind this mask, I ask”, recita un verso della Yellow Magic Orchestra, citata da Fusaro nel libretto che accompagna Histoire Du Soldat, il secondo cd edito da 19’40”, che vede stavolta l’ensemble Esecutori Di Metallo Su Carta allargarsi a settetto e riproporre, con la voce narrante di Stefano Panzeri, l’opera composta nel 1918 dal geniale russo giramondo. Chi c’è davvero dietro la maschera? Se nel primo disco gli Esecutori Di Metallo Su Carta si cimentavano con la popular music underground del terzo millennio, ora invece siamo nell’ambito della classica pura, con una versione fedele all’originale, una parabola del motivo dell’Errante, una storia allestita per un teatrino musicale ambulante, occasione dunque di scambio multidisciplinare in ambito teatrale, radiofonico e televisivo. Un’opera dunque intrinsecamente polisemica e trasversale, perfetta per l’estetica dell’etichetta. Musica con un che di giocoso e lieve che farà ricredere quanti associano la classica solo a pensosi tromboni persi nelle loro torri d’avorio. Questa è semplicemente bellezza pura, disponibile in sole 200 copie, per cui affrettatevi ad abbonarvi. 

“Non è necessario rinunciare al passato per entrare nel futuro. Quando si cambiano le cose non è necessario perderle” (John Cage)

Se il secondo episodio della collana dimostra il pedigree perfettamente classico dei musicisti coinvolti, il terzo ci fa entrare in territori davvero nuovi ed inesplorati: Il Picchio di Sebastiano de Gennaro è, senza mezzi termini, un grandissimo disco. Cinque composizioni per una quarantina di minuti di meraviglia: se in “Woodpecker” dell’olandese Louis Andriessen (non nuovo a relazioni artistiche con l’Italia, ha scritto infatti per la nostra Cristina Zavalloni) i legni non assomigliano, ma sono un picchio, in un film per l’udito che non può essere commentato più di tanto, ma solo ascoltato, con “Losing Touch” di Campion siamo al cospetto di uno straordinario ed enigmatico monolite, un ibrido tra le macchine fluide di Aphex Twin e lo Zappa di The Perfect Stranger; il dialogo tra nastro magnetico e vibrafono apre letteralmente mondi e ci ritroviamo sbalzati in una dimensione aliena, lontani dalla nostra comfort zone, in un posto senza gravità, dove le proporzioni si capovolgono e misure, storia e tradizioni scompaiono, per lasciare il posto a un nuovo alfabeto. Un pezzo del 1994 che sembra scritto domani. Altrettanto strabiliante la versione di “Unchained Melody” di David Lang di Bang On A Can, un pezzo per glockenspiel e rumori che pare una versione in incubatrice degli Autechre e lascia davvero a bocca aperta: un labirinto fatto di pochi mattoni ma da cui è complicato uscire, un clima imprendibile fatto di quasi nulla, ma un nulla che intrappola col fascino gelido ed implacabile  del disadorno. Balbuzie ritmica, timbri scabri ed essenziali, una perfetta economia di mezzi, per un risultato per il quale ogni superlativo non suona esagerato. Personalmente, l’ho ascoltata in loop svariate volte, ed ancora non mi ha stancato, anzi. Se non doveste capire o vi dovesse sembrare troppo strano, aspettate fino a 5’35” e poi preparatevi a volare nello spazio: bastano quei quaranta secondi a rendere questo pezzo letteralmente imperdibile.
Le atmosfere restano di pura fantascienza (non a caso un pallino del compositore, abbiamo scoperto intervistandolo che ha scritto pure un libro, ne riparleremo) con il pezzo di Enrico Gabrielli, “Coppia Di Allotropi”: suoni freddi come minerali, pause enigmatiche, un clima che sa di allunaggio, di sci-fi anni Cinquanta, con un quid beffardo che a me ha fatto ricordare ancora una volta il genio di Baltimora.
Anche con l’ultimo episodio restiamo nello spazio: il picchio ha preso il volo, evidentemente ha dei superpoteri e oramai la terra è solo un puntino: “Artra” di Nikolay Popov, per elettonica, drum-pad e vibrafono, è stato infatti scritto in memoria di uno degli esperimenti spaziali più straordinari dell’ultimo quarto del XX secolo, ovvero la spedizione nel 1977 delle sonde Voyager 1 e 2 a esplorare i limiti del nostro Sistema Solare. Le sonde contenevano dischi con diverso materiale acustico e moltissima musica (da Bach ad Armstrong, dal primo blues acustico a Stravinskij). Questo pezzo immagina letteralmente il ritrovamento di questi dischi in un lontano futuro e parla una lingua che non possiamo spiegare, ma che trova proprio nella sua incomprensibilità un motivo di misterioso, inaccessibile, magnetico fascino.

Tre centri pieni, dunque, per 19m40s, una nuova etichetta che non si pone limiti, a suo agio con il martellamento e la reiterazione dell’underground nostrano come con gli spartiti di un secolo fa, con l’ornitologia spaziale come con la cosmologia (la prossima uscita), la library music, e chi più ne ha più ne metta. Un’attitudine che definiremmo d’altri tempi, da veri esploratori delle possibilità del pentagramma. Aprire le gabbie dei conservatori e far volare fuori tutto ciò che ci sta dentro. Ibridare, mescolare, spiazzare, decontestualizzare. Musica classica nei centri sociali, Steve Reich in fonderia, madrigali a un rave, Autechre in auditorium: perché no?

Se come Duke Ellington pensate che l’unica distinzione sensata sia quella tra buona e cattiva musica, se  anche voi avete orecchie assetate di suoni nuovi, se avete voglia di lasciarvi sorprendere e se volete imparare qualcosa ogni giorno senza dovervi sforzare più di tanto (vi spediscono tutto a casa loro, manco fosse uno di quei corsi per radioamatori per corrispondenza dell’Italia che fu, e che non è più: voi ci dovete mettere solo le orecchie, un pizzico di curiosità e due soldi), fatevi un favore, fate un giro sul loro sito www.19m40s.com ed abbonatevi, ne vale davvero la pena.