Il mio Lemmy

Lemmy Kilmister (credits Robert John)

La mia passione per i Motörhead risale all’inizio degli anni Ottanta e si è consolidata grazie all’amicizia con alcuni fan irriducibili, per suggellarsi in maniera definitiva con il live del 1986 a Bologna, quando hanno partecipato a un festival (organizzato dalla rivista HM) con i Twisted Sister e alcune formazioni di spicco della scena nazionale, Vanadium in testa. Vale però la pena gettare subito la maschera e ammettere pubblicamente il mio peccato originale: quella è stata anche l’ultima volta che li ho visti dal vivo, tanto pensavo che avrei potuto rimediare e soprattutto non avevo alcuna voglia di superare la mia avversione per i grossi festival metal, con annessi gruppi di cui non mi fregava nulla, ore al caldo e chi più ne ha più ne metta. Del resto, nel frattempo avevo fatto la conoscenza con l’etica diy dell’hardcore, i centri sociali, l’abolizione della divisione tra musicisti e pubblico, i concerti con poche decine (massimo un centinaio) di persone, la possibilità di salire sul palco e dopo lo show fare due chiacchiere con il gruppo, tutte quelle cose che ti fanno considerare un concerto in un palazzetto o in uno stadio come una sorta di blockbuster per un pubblico passivo. Tolto questo, che non è poco, me ne rendo conto, i Motörhead sono sempre rimasti nel novero dei miei gruppi preferiti e Lemmy una delle poche – se non l’unica – vera icona capace di seguirmi nel mio percorso eretico da metal kid a onnivoro in continua fuga dal dogmatismo, passasse essa per l’hc, il noise, il black metal, l’industrial, il postcore o qualunque altra forma prendesse la voglia di scombinare le regole. In fondo, i Motörhead erano sempre o quasi i benvenuti, il gruppo che tutti accettavano e perdonavano nel suo essere sempre fedele a se stesso, perché alla fine della fiera era patrimonio comune di tutti i reietti e i misfits dell’universo musicale “estremo”. Rimanevano fuori i “nice boys”, i fighetti che schifavano l’approccio working-class e la scorrettezza della band, ma da quelli stavo volentieri ben lontano, anzi, diciamo pure che i Motörhead servivano a capire chi aveva troppa spocchia o puzza sotto il naso (e mi scusino alcuni buon amici che, pur non rientrando in questa categoria, non sono mai riusciti a comprendere appieno Lemmy e i suoi compagni di strada).

Prima breve parentesi, negli ultimi anni dire che si apprezzano i Motörhead è tornato di moda e la rivalutazione del personaggio Lemmy ha preso piede, con tanto di rincorsa al carrozzone per salire su all’ultimo minuto. Non fosse morto Bowie, il mondo oggi sarebbe pieno di hipster con la maglia della band, ma si sa che alla fine l’Universo trova sempre un modo per tornare in equilibrio. Chiusa la parentesi.

Motörhead (credits Robert John)

Fatta pubblica ammenda per il peccato di cui sopra, c’è sempre stato un nuovo disco con lo Snaggletooth (o Warpig, a seconda di come preferiate chiamarlo) in bella vista nel mio carrello della spesa, ogni momento speciale della mia vita ha avuto la sua colonna sonora targata Lemmy and co.. E, già che ci siamo, precisiamo pure che non sopporto troppo neanche chi: “per me i Motörhead sono solo quelli con Fast e Philty”, perché di dischi ne hanno fatti ventidue – non cinque – molti dei quali assolutamente all’altezza dei classici o, meglio, anch’essi ormai dei veri e propri classici: Orgasmatron, 1916, Bastards, Overnight Sensation, Inferno, Kiss Of Death e anche l’ultimo Bad Magic sono perfettamente a fuoco e degni di essere considerati parte essenziale della discografia di un gruppo che ha raggiunto i quarant’anni di attività senza un vero e proprio colpo a vuoto, cosa che ben pochi si possono permettere.

Questa è l’unica band ad avermi spinto a prendere una tessera (l’unica in campo musicale o politico mai sottoscritta), quella dei Motörheadbangers, rimasta inattiva per molto, ma oggi rinnovata perché c’è bisogno di far quadrato proprio adesso, per mantenere viva un’eredità che merita di essere tramandata. Per questo, depositata la polvere, lasciati blaterare i soliti tuttologi, passato il mese di lutto ad ascoltare tutta la discografia andata e ritorno, visto il film che ne canta le gesta per celebrare i primi trenta giorni senza il vero re (come cita una maglia: “Fuck Elvis, Lemmy is our king!”), fatti i conti con la nostra mortalità conclamata e con l’aver raggiunto la metà della mia esistenza, ho deciso di dare anche io l’addio al mio mito. Come so fare, senza attaccare uno strumento all’amplificatore, ma con le parole messe lì una di fila all’altra, a salutare l’unica persona che mi ha spinto ad assistere ad una cerimonia funebre in diretta (streaming, perché siamo nell’era digitale). Era giusto farlo qui, visto che se scrivo di musica da trenta lunghi anni e ancora mi appassiono a scoprire nuovi gruppi e nuovi dischi di cui parlare con voi, il merito va in gran parte a lui.