Il buon vecchio Jack

Weird Tales, galleria di storie inaudite

Scandagliare i fondi, indagare fra le pieghe del mercato, osservare gli interstizi della storia, viaggiare attraverso le numerose avventure di dischi e musiche finite nell’oblio. Weird Tales è una raccolta di piccole vicende che non hanno raggiunto le luci della ribalta, ma che in fondo avrebbero potuto e dovuto raccogliere l’attenzione del pubblico. Dischi e/o musicisti dalle storie travagliate, biografie maledette o segnate da episodi sfortunati. Non necessariamente capolavori dimenticati ma oneste e, in certi casi illuminanti musiche che magari hanno precorso troppo i tempi oppure sono state sommerse da una gran quantità di prodotti di ottimo livello. Collaborazioni inusuali, stramberie e bizzarre associazioni, aneddoti e intrecci particolari, insomma tutto ciò che il mercato e la storiografia hanno tralasciato e dimenticato per narrare una storia ufficiale, fatta molto spesso di certezze e nette definizioni. Questa galleria è una sorta di controstoria della musica popular, incurante degli steccati di genere e delle etichette. Vuole semplicemente riportare alla luce ciò che la Storia ha lasciato nell’ombra, in alcuni casi colpevolmente. Ma allo stesso tempo è anche un gioco, uno scendere in cantina alla ricerca di vecchi cimeli, o di ricordi sbiaditi. La selettività che un tempo limitava gli ascolti e lasciava nelle mani di pochi fortunati “recensori” un’ampia conoscenza della materia, ora con la Rete non c’è più. Siamo liberi di rintracciare e ascoltare musiche che un tempo abbiamo dovuto lasciare in favore dei prodotti più sicuri, ben conosciuti e spesso consigliati dai passaparola così come dalle narrazioni ufficiali. Ma non è forse la curiosità, il piccolo avvenimento, il granello di sabbia a costituire la base delle vicende umane? Senza tirare in ballo “Les Annales” di Marc Bloch e Lucien Febvre, l’indagare il particolare forse può aiutarci a comprendere meglio il globale. E la galleria di personaggi e musiche dimenticate ci consente una nuova lettura delle storie della popular music, con i suoi miti, i suoi eroi e le leggende. In un percorso del genere anche il soldato semplice ha la sua importanza, il suo giusto valore, nonostante spesso non venga considerato. E così la scintilla folle di un Peter Green oppure la parentesi punk di un bassista come Jack Casady ci offrono una differente chiave di lettura della storia del rock, spesso fatta di compartimenti stagni e rigidità di ogni sorta. Oppure il Gioiello di Bennie Maupin, il clarinettista di Bitches Brew, o le modernizzazioni di un grande vecchio come Pee Wee Russell, ci offrono la possibilità di ascoltare o riascoltare piccoli e dimenticati capolavori che avrebbero dovuto avere ben differente attenzione da parte degli storici. Ma c’è tutto un mondo sotterraneo fatto di occasioni mancate o di lampi di genio che merita di essere scoperto, apprezzato. Possiamo pensare di trovarci in un piccolo museo dove vengono esposte le cosiddette opere minori, che però ci danno una grande gioia, non solo per la loro oggettiva bellezza, ma anche per quel segreto piacere di chi pensa di essere tra i pochi ad aver visto quel museo.
E allora lasciamoci conquistare da queste storie minori, che forse tanto minori non sono. O non lo sono più.
Buon ascolto e buona visione!

Il buon vecchio Jack

Non c’è contraddizione tra i lunghi assoli lisergici, le atmosfere psichedeliche e l’irruenza iconoclasta del punk? Tra lustrini, capelli lunghi e colori sgargianti e creste, spille e anfibi? Per Jack Casady, il bassista dell’aeroplano Jefferson e del torrido blues del Tonno Caldo, della collaborazione con Jimi Hendrix e di Woodstock evidentemente no, si sarà detto ad un certo punto della sua storia.

La West Coast era finita, sepolta dalle contraddizioni, dai problemi personali, dalle droghe, insomma, la reazione stava vincendo e la Summer Of Love era un blando ricordo. I Jefferson, tra i principali protagonisti di quelle stagioni, i più politicizzati e, probabilmente, anche i più creativi, erano diventati Starship e la trasformazione si era portata via l’impegno, naufragando nello spazio e poi nelle chart. Chi non aveva voluto dissolversi nel mercato, aveva continuato a improvvisare su altre stelle, come i Grateful Dead, oppure si era dichiarato definitivamente sconfitto, come David Crosby, o aveva continuato a produrre musica ma senza più l’energia di un tempo. A parte forse Neil Young. Ma due dei protagonisti avevano deciso di seguire un’altra strada, la strada delle radici americane, anzi afroamericane: la strada del blues. Jorma Kaukonen e Jack Casady, chitarra e basso dei Jefferson Airplane, probabilmente avevano sentito l’avvicinarsi della conclusione della storia, decidendo di dare vita e spazio al loro vecchio amore. Gli Hot Tuna sarebbero stati, per alcuni anni, uno dei gruppi blues più noti, raccogliendo in parte le schiere di fan orfane della West Coast psichedelica.

Jack Casady è un bassista unico, con un suo stile elaborato e dal suono potente, pieno. Kaukonen, il suo chitarrista sodale, lo coinvolge nell’avventura dell’aeroplano Jefferson e lui ne diventa un membro fondamentale. La tessitura ritmica che impone alla musica del gruppo californiano ne contraddistingue lo stile, dando quella varietà e quel movimento che probabilmente manca alle altre band della West Coast. E quando Kaukonen e gli altri si lanciano in quelle lunghe suite improvvisate, lisergiche e visionarie, lui è lì a sostenerne le creazioni e, allo stesso tempo, ad emergere anche in qualità di solista. Ascoltare “Bear Melt” su Bless Its Pointed Little Head per credere. La capacità di Casady è quella di arricchire e sommuovere ritmicamente e armonicamente i brani. È un approccio che ricorda in parte il jazz,  ma con un suono di  basso elettrico potente e incalzante. Fornisce un tappeto sonoro che allarga l’armonia e allo stesso tempo ne dà l’impulso ritmico. Di bassisti così in ambito rock, e non solo,  non ce n’è nessuno. Ma Jack è anche un tipo abbastanza solitario, silenzioso, in questo ricalcando tipicamente la figura del bassista rock. È nelle retrovie, scruta gli altri e ne osserva gli agi e i disagi, i comportamenti e gli eccessi. Non ruba la scena, ne è partecipe ma in disparte. A lui piace così. E nutre un’amicizia profonda per Jorma Kaukonen, il chitarrista con il quale condivide passioni e musica.

Così, per un po’ di anni, i due portano avanti con buone soddisfazioni le avventure del Tonno Caldo, tra dischi memorabili (Burgers, per esempio) e altri meno, ma sempre con profonda onestà e consci del loro valore. Un gruppo che non ripercorre certo i fasti della Summer Of Love, ma rimane con i piedi ben saldi a terra. E per Jack Casady va bene così. Anzi, in qualità di produttore aiuta l’amico Kaukonen a pubblicare il suo primo disco solista, lo stupendo Quah. Ma i due continuano a suonare insieme, sempre con gli Hot Tuna, fino a quando si sentono le avvisaglie dell’uragano punk. E, con notevole tempismo, e mantenendo integra la loro estetica senza cercare di aggraziarsi i nuovi ascolti, concludono la loro avventura con il bel doppio lp Double Dose, tutto dal vivo e con una facciata dedicata a Kaukonen in splendida solitudine.

E quindi ora ti aspetti che tutto taccia, magari qualche ristampa, o qualche progetto collaterale ma sempre in un ottica rock blues. Sono musicisti che hanno legato la loro storia e le loro musiche a quell’immaginario e non potrebbero fare altro, non ne sarebbero in grado. Forse. Forse….

Invece accade quello che non ti aspetti, che non avresti mai immaginato. Jack Casady in un gruppo punk rock! Sembra una fake news, come diremmo oggi. Nessuno riesce a credere che il bassista rock con l’approccio jazz si sia gettato nell’universo punk, l’antitesi di tutto ciò che fino a quel momento il buon vecchio Jack (anche se era ancora giovane nel 1979) aveva suonato. Ma è tutto vero. Anzi, sembra che l’iniziativa sia proprio di Jack Casady, che aveva bisogno di qualcosa di radicalmente differente rispetto alle sue esperienze musicali. Ascoltata una tape di un certo Brian Marnell, cantante e chitarrista di dieci anni più giovane,  decide di lavorarci insieme per formare una nuova band.

È il 1980 e per la 415 Records, la prima etichetta americana ad occuparsi di punk, esce Extended Play, per l’appunto un ep a nome SVT, band di San Francisco. Preceduto da due singoli, dei quali solo “Heart Of Stone” viene pubblicato dalla 415 records, Extended Play vede alla voce e chitarra Brian Marnell, alla batteria Paul Zahl (nei singoli c’era Paul Gibson, poi con Huey Lewis And The News), al basso il nostro Jack Casady e alle tastiere, incredibile, Nick Buck, collaboratore storico degli Hot Tuna, ma anche dei Jefferson e di tanti altri gruppi rock e blues. Insomma, un gruppo abbastanza particolare: per metà Summer Of Love e per l’altra No Future. Ovviamente è una provocazione, nondimeno la stranezza rimane, soprattutto per la presenza di Casady, certo inaspettata. Va detto che a San Francisco, pur essendo stata la città dove più forte era la presenza dei gruppi rock psichedelici, Jefferson e Grateful Dead su tutti, il punk ha avuto e avrà un suo inatteso sviluppo, con band come i Nuns, gli Avengers e i Dead Kennedys. E a Los Angeles, per portare un altro esempio bizzarro, nello stesso anno Ray Manzarek, tastierista dei Doors, produce e suona  sul primo disco degli X, altro storico gruppo punk.

Ma torniamo agli SVT e al loro ep. La copertina è in perfetto stile punk/new wave, con quel nero che macchia il rosa, lo soffoca e lo muta di intensità, quasi a simboleggiare un passaggio di testimone. E sul retro ci sono le foto in bianco e nero (anch’esse molto simboliche!) dei musicisti e c’è veramente lui, Jack Casady, il bassista di Woodstock! Sarà forse un’impressione ma sembra leggermente fuori posto, così arrangiato alla punk, capelli corti e occhiali vistosamente fuori look. E lo stesso dicasi di Nick Buck, camicia bianca, taglio di capelli alla adult rock e faccia da bravo ragazzo.

Metti il disco sul piatto e rimani stordito, disorientato. Sembra di ascoltare i Clash, con quei cori e quel furore punk in parte levigato, ancorato al rock sporco e attento a non tagliare troppo il cordone ombelicale con la tradizione. Ma è un suono nuovo, con inaspettati agganci alla new wave, forniti dai suoni delle tastiere di Nick Buck, incredibilmente. Brani al di sotto dei tre minuti, veloci, con una “Walk The Line” di Johnny Cash e una “Red Blue Jeans” di Gene Vincent riattualizzate in versione punk rock. Il resto delle composizioni sono a firma di Brian Marnell e di Nick Buck, ancora lui, interamente calato nel ruolo di giovane rocker. E Jack Casady? Se nessuno ci avesse detto che c’è lui al basso, non l’avremmo mai riconosciuto. Del suo stile elaborato, ricco e complesso non rimane quasi nulla. Ma gli va dato atto di essersi completamente calato nel nuovo sound, di aver recepito in fretta la lezione del punk: poche note ma colme di furore ed energia, ed essere incisivi ed essenziali come non mai. Una ritmica perfettamente in grado di sostenere i potenti anthem della band.

La sorpresa è grande. È come pensare a Paul Simonon che suona con i Jefferson Airplane. Ecco, l’effetto è più o meno lo stesso. In ogni caso Extended Play è un buon disco e il gruppo sembra possedere una sua fisionomia, una sua identità anche in rapporto al resto della scena punk. E quindi si va avanti e si registra il primo lp, con cambio di etichetta, questa volta la Mutiny Shadow International, la stessa di un altro importantissimo gruppo punk di San Francisco, The Mutants, e una cambio di formazione: Nick Buck non è più negli SVT, ora diventati classico power trio.

No Regrets, ancora con una tipica copertina punk, esce nel 1981 e continua, sostanzialmente, il percorso intrapreso con Extended Play. L’abbandono di Nick Buck irrobustisce il suono, più ruvido e meno incline ad aperture pop. I brani sono tutti scritti da Brian Marnell, che dimostra di avere una buona penna, confermando in pieno l’intuizione di Jack Casady. La vicinanza ai Clash rimane intatta, ascoltare per esempio “Heart Of Stone”, il vecchio singolo qui riproposto in una versione certamente più hard e convincente. Ma anche la title-track, con il classico coro  un po’ da stadio, veloce e irruenta, e un finale dove si riascolta, timidamente, il lavoro del basso di Jack. Da menzionare, inoltre, la strumentale “North Beach”, rock articolato ed affilato con ancora Casady in evidenza.

Insomma, il gruppo c’è, suona una buona musica, ha delle idee abbastanza valide ed originali, perlomeno in quell’ambito. Certo non possiede la carica innovativa e provocatoria dei Dead Kennedys, loro concittadini, ma i due lavori discografici si lasciano ascoltare con piacere. Tutto lascerebbe pensare a un prosieguo della carriera e a un nuovo orizzonte musicale per il nostro Jack Casady, pienamente inserito nella nuova scena punk rock californiana. E invece il nostro bassista continua a stupirti, seguita a confondere le acque, a disorientarti. Che fa? Insieme al batterista Paul Zahl lascia gli SVT e forma un nuovo gruppo, The Yanks, con Jack Johnson e Owen Masterson, due giovani musicisti provenienti dalla punk rock band Das Blok. A questo punto sei pronto ad aspettarti qualsiasi cosa, anche un Casady versione hardcore. Ma evidentemente non si può fuggire troppo in là, non si possono tagliare i ponti con il proprio passato. Chissà cosa avrà pensato il buon vecchio Jack. Cosa sto facendo, ma chi me lo ha fatto fare di ingarbugliarmi con questi giovani a suonare musica punk di tre minuti e poche note di basso. E così, prima di registrare qualsiasi cosa, Casady abbandona gli Yanks e con loro anche quella musica così distante dal suo rock psichedelico e dal suo blues. Tornerà, qualche anno dopo, a fianco del suo amico Jorma Kaukonen, a riprendere la storia e le storie degli Hot Tuna.

Va dato atto che la strana ed inaspettata incursione di Jack Casady nel nuovo punk rock, per quanto breve, ha lasciato il segno. E va lodato il suo tentativo, peraltro riuscito, di rimettersi in gioco con dignità e professionalità, adottando uno stile consono al tipo di musica senza voler imporre la sua figura a tutti i costi. Riconoscendo comunque la validità delle nuove proposte musicali si è calato perfettamente nella parte, con umiltà e onestà. Ci sarebbe stato anche un bel finale se, purtroppo, il buon Brian Marnell non ci avesse lasciato, per problemi di eroina, nel 1983, poco dopo aver ripreso a suonare e comporre, in vista di un disco insieme a Jim Carroll. E poco può sollevarci il fatto che Marty Balin, uno dei membri fondatori dei Jefferson Airplane, abbia poi pubblicato nel suo disco Lucky, la cover di Heart Of Stone, il primo singolo per la 415 Records degli SVT. Peccato, avremmo accolto con estremo piacere un ritorno del buon vecchio Jack in versione punk a fianco del suo giovane amico Brian Marnell.