I HATE MY VILLAGE, S/t

I HATE MY VILLAGE, S/t

Odio il mio villaggio, devo camminare ogni giorno scalzo per andare fino al pozzo e torno pazzo di fatica. Odio il mio villaggio e le sue tempeste che ti fanno trovare la sabbia anche nel piatto in cui mangi. Odio il mio villaggio, so che c’è un mondo sconfinato là fuori, ma io appartengo agli sconfitti e non posso vederlo.  Eppure, se solo avessi il coraggio di andare fino alla città vicina… sono solo tre giorni di cammino, sono giovane e forte, basta stare attento di notte e dovrei arrivare sano e salvo. E lì incontrerei altri fratelli, che forse mi spiegherebbero che anche loro odiano il posto dove stanno. E con loro potremmo forse intraprendere un lungo viaggio, e andare, e vedere se c’è un pezzo di mondo che ci può concedere un poco di fortuna.

Sa di polvere, di Africa, di lunghi tragitti, di scirocco che spacca le labbra, di mare agognato, immaginato, di fatica, di blues ancestrale questo bel disco della nuova formazione messa in piedi da Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours) assieme al chitarrista Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion) e ad Alberto Ferrari dei Verdena alla voce. “Tony Hawk Of Ghana” apre con un bel groove electro desert blues, come una jam tra John Lee Hooker e un uomo in blu con la chitarra a dorso di un cammello, con una ficcante melodia vocale che resta subito in testa. Dal Mali al Mississipi la distanza è molta meno di quanto non sembri, ce lo ha insegnato molti anni fa il film capolavoro della serie “The Blues” (prodotta da Martin Scorsese) con il bluesman Corey Harris a fare da Cicerone in un viaggio alle radici del blues. Ricordo ancora l’emozione nel vedere le scene che ritraevano il grandissimo Otha Turner, depositario dello stile fife&drum, che dal sud degli States faceva emergere in modo lampante la paternità africana della musica in dodici battute. Fu grazie a quella serie che capii, sentii davvero il blues per la prima volta. E di blues (rigorosamente del deserto) è intriso questo lavoro, ma è un blues ricoperto da una patina di modernismo (i cenni della prima traccia) che non suona né inopportuna, né superflua o posticcia, perché i musicisti sanno perfettamente come muoversi in questo ambito, aiutati anche dalla mano sicura e visionaria di Marco Fasolo (ce li ricordiamo i Jennifer Gentle, sì?), che produce il tutto. Ritmo, ritmo, ritmo: questo è l’imperativo; figure ripetitive (non c’è poi tutta questa differenza tra minimalismo, kraut e musica africana, da questo punto di vista), timbri caldi e pastosi per una musica che sa evocare presenze (“Presentiment”) attraverso una danza che induce alla trance, ammicca all’afrobeat di King Fela (“Acquaragia”) sebbene non ci sia spazio per i fiati qui, ma per corde antiche e sempre uguali eppure sempre miracolosamente travolgenti (“Tramp”, che ricorda davvero molto da vicino l’epica di Bombino e dei Tinariwen, sebbene attraversata da benvenute interferenze quasi avant, come un Tom Morello dei RATM in fissa coi Tuareg). Una convincente versione “psycho”del beat primordiale – un funk del Sahara indiavolato e ossuto che stacca inni al cielo – è “Fare Al Fuoco”, anthemica e tambureggiante. Con “Fame” sembra letteralmente di ascoltare un incipit di uno dei tanti bellissimi dischi del dottore e sindaco di Niafunké, Alì Farka Touré, che poi assume strane sembianze tra Doors (“The End”) e Massive Attack (“Unfinished Simpathy”) grazie a un ottimo arrangiamento di percussioni che stranisce e convoca alla tavola (apparecchiata con il nulla che c’è) fantasmi. “Location 8” e “Bahum” sono parentesi strumentali (più interessante la seconda, a tentare di far decollare nello spazio quella che si apre quasi come una canzone di amore), “I Ate My Village” chiude con un beat ternario che non ammette repliche e un suono di chitarre e percussioni che fa salire a galla memorie dei Konono n.1 (con i loro fantastici likembe, una sorta di kalimba elettrificata e distorta) e di Nigeria. In the beginning there was rhythm: gli I Hate My Village portano avanti il verbo, pagando il doveroso tributo alle sacre fonti ma dimostrando anche di avere buona capacità di scrittura e personalità. Sicuramente il live sarà una festa.