HYSM?DUO, Astonishment

Un’alternativa alla verità non è necessariamente verità, come un’alternativa alla bugia non è per forza di cosa un’altra bugia. L’unica via per moltiplicare la verità è ripeterla. La ripetizione è di per sé un atto estetico. L’unico sentiero è l’errore. (“The Error”)

Un pugno di note di basso trascinate, qualcosa che tracima, con l’ineluttabile, lenta calma della lava: un mood terrigno, un suono che pare forgiato in una qualche fucina nascosta da una semidivinità stramba e storpia con pochi, scalcinati attrezzi. Ma miracolosamente capaci di produrre bellezza: ai primi ascolti ero rimasto interdetto, non avevo saputo penetrare la coltre minimale di un disco fatto praticamente solo da un basso effettato e scarno e da una batteria lieve e puntuale; poi, poco alla volta, sono entrato nel cratere e ho trovato la bellezza della ripetizione a cui allude la voce all’inizio di questo Astonishment. Stupore. Lo stupore di fronte all’ombra che avanza e sancisce il suo regno, la meraviglia del male, la perfetta bellezza del gesto insensato di un killer.

Linee melodiche nere, semplici ma mai banali, ossute, cariche di oscuri presagi, quasi una versione in mescalina dei Black Sabbath, pochi, pochissimi elementi in gioco (voci, percussioni, synth, ma sono solo fugaci apparizioni) e un’ottima capacità nel combinarli in vari modi (“Region” è l’esempio perfetto, con il suo variare da ruggini doom a squarci sbilenchi di quasi pop che fanno venire in mente addirittura la colonna sonora di “Gomorra”). Ci si lancia senza timore reverenziale negli anfratti di una caverna già presente su mille mappe, che la formula del duo secco basso batteria la sappiamo a menadito oramai; qui però la ascoltiamo, per uno sghembo miracolo che non sappiamo né ha importanza spiegare, come fosse illuminata da una luce sordida e insieme sorniona, comunque cocciutamente diversa. Sono minuscoli prototipi di paura, esercizi di funk sbagliato per campi di rieducazione progettati da un qualche scrittore sadico che inventa realtà parallele e grottesche. In alcuni momenti riemergono addirittura benvenutissime memorie degli Iceburn, che con un capolavoro come Hephaestus nel 1993, su Revelation, all’epoca mandarono in fiamme parecchie teste: qui, seppure declinato con un altro linguaggio, ritrovo, frantumata in mille pezzi, la stessa furia cubista e la stessa indomita attitudine di reinventarsi di certo hardcore che poi si fece math, post, fino a lambire altri territori. Gli stessi per cui ci ritroviamo a passare lungo questo disco, un paesaggio di macerie e di arte povera dove  attraversiamo otto  malmostose paludi a metà strada tra blues fantascientifico e hard rock involuto ed autistico, graziate da un tocco jazz; dotate del grande pregio di essere pensate e suonate con estrema libertà, con l’incoscienza e la consapevolezza gioiosa  di chi non ha nulla da perdere, perché, come recita la cartella stampa “le cose cambiano. Le cose sono sempre le stesse. Anche la musica. Le cose non sono importanti. Neanche la musica. Per questo essa è fondamentale”.