HUGO RACE

Hugo Race Fatalists

Il fascino della scoperta, la capacità di danzare con la scintilla che unisce le anime attraverso la musica, girandosi il Mondo. Dalle paturnie di Nick Cave al grande amore per l’Italia. L’universo di Hugo Race include questo, ma anche tanto altro. È da poco uscito un nuovo disco con i “nostri” Fatalists. Di seguito l’intervista.

E così, dopo il disco intitolato Fatalists, ora ne firmi uno a nome Hugo Race & The Fatalists. Come mai questa scelta, al di là del gruppo che ti accompagna? 

Hugo Race: Il nome del gruppo è oggi Hugo Race Fatalists perché, semplicemente, le stesse persone coinvolte nel progetto precedente hanno realizzato We Never Had Control. Per sottolinearne l’identità e quella della band abbiamo usato il titolo dell’ultimo album. È importante per me che un disco come questo abbia un’identità distinta: dal punto di vista sonoro i Fatalists sono diversi dai True Spirit, anche se in realtà ci dovremmo chiamare Hugo Race e i Sacri Cuori (i Fatalists di Hugo sono il gruppo italiano Sacri Cuori, ndr). Hai sentito il loro nuovo album Rosario? La parola “Fatalists”, poi, indica il vuoto esistenziale dal quale abbiamo estrapolato questa musica fantastica e riflette il sottotesto filosofico delle parole.

Com’è nato il rapporto con Antonio Gramentieri e compagni? Quanto ha influito la loro presenza per la scrittura dei pezzi di We Never Had Control? 

Incontrai Antonio per la prima volta nei tardi Novanta, quando suonammo la stessa notte al Clandestino di Faenza. Mi prestò il suo amplificatore per il mio set. Guardai il suo concerto pensando che ciò che faceva fosse davvero molto interessante. In seguito, mi invitò allo Strada Blu Festival quando ne era il direttore creativo e ci conoscemmo un po’ meglio. Mi suggerì che, eventualmente, avrei potuto essere ospite del progetto Sea Of Cortez e questo ci portò a suonare insieme per molti anni di fila.

Gradualmente abbiamo sviluppato un nostro nuovo concetto di fare musica per oltre tre o quattro anni, jammando con spiriti affini al festival, musicisti come Bill Elm, Erik Van Loo e Vicky Brown.

Diego Sapignoli è uno dei migliori batteristi che io abbia mai sentito e, con lui, io e Antonio abbiamo iniziato a suonare in terzetto e i risultati erano stupendi. Così, abbiamo deciso di registrare un disco ed ecco come hanno preso vita i Fatalists, lentamente, lungo un periodo di anni, evolvendosi in un modo molto… umano. Non mi aspettavo che sarebbe accaduto, per cui ne sono ancora più soddisfatto. Antonio e Diego non mettono mano ai miei testi, ma hanno un profondo impatto sul suono e gli arrangiamenti e ancora una volta è il risultato dell’incontro tra me e i Sacri Cuori: nessuno suona come loro perché loro hanno una visione della musica totalmente personale. È italiana nel senso di Nino Rota, sudamericana nel senso di Jodorowsky e specificatamente romagnola nel senso di Fellini. In più sono dei veri “rock’n roll muthafuckers”! 

Com’è nato e poi si è concretizzato (dalla composizione alla registrazione) We Never Had Control? 

Ho scritto le canzoni durante un periodo in cui vivevo da solo nel centro di Melbourne: una lunga, umida e “monsonica” estate, durante la quale una delle mie più care amiche non stava per niente bene. Mentre scrivevo il disco lei lentamente si è ripresa, ma il senso di tutto quello che è successo nel mezzo si è trasformato in una sorta di diario sulla natura della vita e della morte, il “posto” da cui provengono tutti i pezzi di We Never Had Control. Un luogo particolare, un tempo e un momento che spero rifletta la sensazione universale di dramma, esistenza e insignificanza. Poi ho proposto le canzoni nel solito studio in Italia e abbiamo registrato tutto, in pratica, in tre giorni. Siamo dotati di una strana telepatia, i Fatalists mi capiscono così bene che è quasi spaventoso. C’è una chimica forte tra me e loro, ci si ispira a vicenda. Insomma, io ho portato le canzoni, loro il suono. Sono un chitarrista, ma la chitarre di Antonio conferiscono una diversa dimensione ai miei pezzi, così io ho suonato solo l’acustica e un po’ di tastiere e ho lasciato lui a dipingere suoni sulle mie parole. Diego suona un sacco di percussioni selvagge e tratta elettronicamente tutti i suoni, così accanto al suo beat minimalista ha generato un altro mondo sonoro. Il nostro nuovo bassista è Checco Giampaoli ed è bello potente anche lui. Successivamente ho lavorato sui cantati e sulla post-produzione nello studio di Melbourne, e Franco Naddei ha mixato senza di me in pieno inverno, rimanendo a volte intrappolato nello studio a causa di forti nevicate. Abbiamo usato Skype per parlare del mix, a tarda notte in Australia, me in pieno calore e aggredito dagli insetti folli e loro sottozero. We Never Had Control, dicevo, è basato su temi di vita e morte ed è stato creato tra due continenti: può sembrare un disco semplice, ma in ogni cosa risulta essere l’opposto. 

Di cosa non abbiamo mai avuto il controllo? 

Essere in vita, ma destinati a morire. I corpi che abitiamo e le circostanze in cui siamo fisicamente creati. Le famiglie in cui nasciamo e gli eventi che impattano su di noi. Di cosa abbiamo controllo o su cosa abbiamo possibilità di scelta, se teniamo conto delle condizioni che ho appena citato? È un paradosso, e il conflitto tra scelta personale e destino è il perno su cui ruota il dramma della vita umana.

Cosa ha portato all’ennesima (e splendida) variazione di temi e suoni della tua musica, quella vista nel disco precedente e in questo?

Volevo registrare dischi che toccassero le emozioni della gente nel modo più viscerale, candido e compassionevole, con un po’ di “bellezza”. Desideravo insistere sulle mie esperienze personali. Nessuna fantasia o ipotesi, perché la realtà è davvero più strana della finzione. Tutto si abbinava al suono che sentivo crescere, in buona parte acustico, quasi folk, corde d’acciaio e tracce di violino con percussioni pesanti. Ho sempre amato la vecchia musica folk/blues del Delta e sono anche stato influenzato dal mio lavoro nel Mali con i Dirtmusic. Volevo tuffarmi nella fenditura tra suono e coscienza. E allo stesso tempo mi sono ritrovato con i musicisti giusti per seguire quella visione.

Nel caso di We Never Had Control sembra che ci sia ancora più attenzione alla melodia, come in “Snowblind” o “Shining Light”.

Vero, anche se c’è sempre stata una tangente melodica nella mia scrittura. Penso a canzoni dei True Spirits come “Before The Flood”, “Sorcery” o “Into The Void”. Anche i pezzi che ho scritto per i Sepiatone, in coppia con Marta Collica. Incidentalmente, poi, il nuovo disco targato Sepiatone (Echoes On) sarà pubblicato ad aprile dalla Interbang. Abbiamo iniziato nel 2007 ed è stato necessario davvero tanto tempo per finire. C’è poi un altro disco che non ho ancora menzionato, No, But It’s True, prodotto con Cesare Basile nel suo studio di Catania per la sua label (dedita solo a vinili, ndr). In quest’ultimo caso ho suonato cover di tutte queste canzoni d’amore, alcune davvero oscure, usando soltanto una chitarra acustica e la mia voce. Il disco esplora le emozioni e le melodie di altri autori e mi ha trasportato in quel tipo di spazio: melodia, minimalismo, versi d’amore. Sembra tutto molto semplice, ma era tutto molto complesso e personale. 

C’è un pezzo che preferisci tra quelli del nuovo disco e uno che non ti convince del tutto? 

Se c’è qualcosa di cui non sono convinto, preferisco non realizzarla proprio. Ci sono sempre pezzi che elimino dalle tracklist dei miei dischi perché il loro momento non è ancora arrivato. Ci posso sempre tornare su dopo. Un bel po’ di canzoni così sono finite in Fatalists, pezzi orfani che hanno trovato la strada giusta durante le sessioni con Antonio e Diego, anche prima che diventassimo la band che siamo ora. Quelle canzoni sono nate mentre scrivevo per i True Spirit, i Dirtmusic e i Sepiatone. Ero ammalato, polmonite, presa on the road in Europa dell’Est con i True Spirit, un’esperienza quasi mortale e tremenda. Quelle canzoni sembravano scritte apposta per tutto quello che è successo, ma è stata pura serendipità. 

E I True Spirit? Hanno coperto un periodo che va dal 1989 al 2010. Ti va di raccontarci la “loro” storia? Lo so che è un’impresa difficile. 

I True Spirit sono nati come un progetto solista al di fuori della mia band post-punk The Wreckery, un progetto che è cresciuto sempre più, come una vite selvaggia, e che ha messo radici davvero quando mi sono diretto a Berlino. In precedenza ero a Londra in cerca di date per i Wreckery, ma era il blues sperimentale/elettronico dei True Spirit che poteva prendere piede live ed in Germania. Per questo mi sono trasferito a Berlino nel 1989, prima che buttassero giù il muro. In seguito il mio batterista di Melbourne Chris Hughes mi raggiunse in città e partimmo per un tour, non solo in Germania, ma, gradualmente, in tutto il blocco Est. L’alternarsi di situazioni diverse ebbe un forte impatto su di noi, si poteva vedere in diretta come la realtà stesse cambiando e quanto fragile fosse. Poi il gruppo si è espanso con i membri tedeschi dai Die Haut, Flucht Nach Vorn. Hacke degli Einstürzende Neubauten è stato con noi per molti concerti, per cui si era diventati tipo una famiglia estesa. Hugo-più-chiunque-altro-fosse-disponibile, una sperduta tribù di tredici o quattordici persone. Di base, eravamo un gruppo di rock psichedelico nel quale non c’era nessuna regola, con il suono che cambiava costantemente rendendo difficile al nostro pubblico prenderci in contropiede o anticipare cosa saremmo diventati, il che è una cosa sia positiva, sia negativa. In seguito, firmammo per la Glitterhouse e abbiamo pubblicato, credo, sui quattordici dischi in studio. La novità è che dopo sette anni di silenzio stiamo lavorando a un nuovo album (a Melbourne), la cui uscita è programmata per il 2014. Le basi dei pezzi sono completate, abbiamo affittato una casa per registrarlo, trasformandola in uno studio, e abbiamo a disposizione una lunga estate per cazzeggiarci dentro. Non suona come un disco dei Fatalists o altro. Sembra essere una strana bestia elettronica.

Di quale disco a nome Hugo Race & The True Spirit sei più orgoglioso?

53rd State del 2008. Second Revelator del 1992. Riesco ancora a rapportarmi bene ad un bel po’ dei nostri lavori, anche se li ho abbandonati da tempo. Tipo Last Frontier del 1999: è un disco strano, ma anche affascinante per le sue imperfezioni.

Hugo Race

E del tuo contributo ai Birthday Party e ai Bad Seeds? Come sono i rapporti con Nick Cave? 

Nick è una forza. Guida brave persone e realizza cose forti con loro, oltre a essere terribilmente carismatico, come è evidente in molti dei suoi lavori. Non avrei mai potuto dire di no ad un progetto che mi ha cambiato e ha scaraventato la mia mente in un nuovo stato. Nick ha la sua storia e alcuni deformi angeli custodi seduti sulla sua cattolica schiena, che gli sussurrano “cose” esoteriche nelle orecchie. Il futuro non è scritto.

Tornando un attimo ai Wreckery? 

Dopo Past Imperfect, il doppio cd uscito a posteriori in Australia nel 2008, abbiamo messo su un tour nazionale ed è stato davvero una cosa positiva e divertente. Non so se lo rifaremo mai, ma non è del tutto fuori questione. Esiste un nuovo pubblico per ciò che proponiamo come Wreckery. È che io non ho tutto il tempo che mi servirebbe.

E delle tue altre numerosissime collaborazioni, cosa ti va di raccontarci? Da Nikki Sudden a Robert Foster, dai Micevice ai La Crus, sino al già citato Cesare Basile…

Eh, per rispondere servirebbe scrivere un libro… Sono sempre alla ricerca in ogni angolo del mondo del prossimo progetto pronto a sfidare e trasformare la mia creatività. Ci sono così tanti talenti in ogni paese e i miei colleghi mi suggeriscono d’istinto sempre nuove persone che saprebbero colpire la mia anima. Così viaggio, osservo, prendo più informazioni possibili. Mi spingo costantemente a cercare progetti o artisti pronti a inondarmi di luce nuova. Una ragazza sexy in lingerie che può cantare come un angelo, tormentata da oscuri fantasmi e dotata di un’aura misteriosa è qualcosa che spesso mi spezza in due. Per quanto riguarda il passato, alcuni di quelli che citi purtroppo non ci sono più, altri ancora vanno avanti. Parlando di Cesare, una delle collaborazioni più interessanti è stata il progetto Songs With Other Strangers, con Basile, Manuel Agnelli, John Parish, Marta Collica, Steve Wynn e altri grandi musicisti. Un regista siciliano ha documentato il nostro piccolo tour nel 2010 e, anche se non è stato ancora pubblicato niente, si è trattata di un’intrigante esplorazione di come artisti così diversi potessero convivere così bene.

Tornando ai Dirtmusic?

Agli inizi di quest’anno io e Chris Eckman abbiamo finito di mixare il nuovo disco targato Dirtmusic, registrato sempre in Mali, a settembre, durante la crisi che ha funestato il paese in quel periodo. Per questo l’abbiamo chiamato Troubles e dovrebbe uscire il 7 giugno in tutto il mondo su Glitterbeat, una sotto-etichetta della Glitterhouse che si occupa di artisti africani. Troubles è nato in due settimane di intensa e spontanea jam session a Bamako, ed è venuto fuori acido e psichedelico con un forte gusto elettronico. È un disco di cui mi sono innamorato totalmente, perché davvero non assomiglia a niente altro ascoltato prima. I pezzi sono nati da una stretta collaborazione con i musicisti malesi, anche i testi sono stati scritti durante quelle due settimane. Abbiamo invitato a lavorare con noi almeno cinque o sei altri cantanti, artisti come Samba Toure, Ben Zabo, Aminata Traore e non solo. Le tematiche affrontate riguardano la crisi, la guerra, l’amore e la pace. Per questo era necessario che tutto si muovesse tra diversi cantanti e differenti linguaggi, in un’affascinante convergenza di realtà e ispirazione. Chris Brokaw ha lasciato il gruppo prima della nuova puntata in Mali, dato che non si era tutti d’accordo su quanto fosse “sicura” la situazione politico/sociale del posto in quel momento. Eckman e io pensavamo che, nonostante i rischi non fossero di poco conto, la situazione sarebbe potuta peggiorare ancora di più. La guerra era in arrivo e sarebbe potuta essere l’ultima occasione che avevamo per essere lì e sono contento di averlo fatto. Ha significato molto per noi e per tutti quelli che sono stati coinvolti, dagli amici ai collaboratori e chi è diventato tale nel frattempo. Abbiamo registrato così tanto materiale che ci sarà un altro disco per il 2014, una sorta di “volume 2”, intitolato Fetish. Anzi, è molto probabile che ce ne sia anche un terzo per comporre una trilogia. Per ora pensiamo solo all’uscita di Troubles, dato che abbiamo anche pianificato un tour, con la crew africana, il prossimo anno.

Quale altra collaborazione recente ci siamo persi?

A saperlo…. dato che ci sono cose che realizzo ma che poi vengono pubblicati molto tempo dopo, ma… ho registrato nuove canzoni con Mick Harvey, per le sessioni del prossimo disco dedicato a Jeffrey Lee Pierce, il terzo della “serie”. In questo caso tutto quello che ho potuto fare è stato prendere dei testi che Jeffrey non ha mai utilizzato e trasformarli in pezzi finiti. Ho creato la musica pensando a cosa a lui sarebbe piaciuto che facessi. Lo so che suona “storto” e strano, lo è. Tutto però è venuto fuori interessante e Mick è uno dei miei batteristi preferiti ed è lui il motore principale di tutto, quello che infonde potenza. Poi ancora il nuovo disco di Samba Traore, Albala. Registrato sempre in Mali e mixato da Chris Eckman. Ho suonato le chitarre e i synth, dando una mano a infondere atmosfera al tutto, dato che Samba desiderava un disco che andasse davvero oltre ciò che aveva realizzato sino ad allora. Lui era il chitarrista di Ali Farka Toure, per cui di solito suona con un taglio da blues del deserto del Mali dotato di alcune aperture per diversificare. I testi sono molto politici ed è stato davvero un piacere lavorarci. Di recente ho poi suonato alcune canzoni di Rowland S. Howard a un concerto-tributo a Melbourne, ed è stato stupendo. Si era con la band che ha suonato nel suo ultimo disco, Mick, Brian Hooper e JP Shilo. Dovrei menzionare anche The Secret Of Us All, album di Catherine Graindorge, pubblicato da una piccola label belga. L’abbiamo registrato a Bruxelles e ho svolto anche il ruolo di co-autore per alcuni pezzi. C’è anche da tenere d’occhio il nuovo disco di Pantaleimon, co-prodotto con lei: anche in questo caso ho contribuito alla scrittura e ho suonato qui e là. È intitolato The Butterfly Ate The Pearl ed è venuto fuori molto strano e dotato di una bellezza da folk psichedelico difficile da rendere a parole. La musica è una giungla di diversità e io la percepisco sempre in maniera differente. Quando ho iniziato a suonare, ero coinvolto in tutto tranne che nel mainstream e tutti mi hanno sempre spronato ad ascoltare qualsiasi cosa, perché è fondamentale continuare ad imparare con la mentre sempre aperta. Ho avuto a che fare con il punk e la musica classica, con le colonne sonore e l’elettronica sin da quando avevo 18 anni e da allora non sono cambiato in questo. Poi è stata la volta di ascoltare Miles Davis, poi Get Up On It, vintage dei ’70 ed è sempre stato stupendo. Ascoltando diversi tipi di musica negli anni ho sempre trovato del nuovo da scoprire e non ho ancora raggiunto il punto in cui posso dire che la mia curiosità sia soddisfatta. Gli altri artisti poi mi ispirano, tutti quelli che lavorano con me e continuo ad incontrare gente che suona qualcosa che non avevo mai sentito o cose più classiche in modi che non avevo proprio considerato.  È fondamentale poi per instaurare una collaborazione, la musica è un linguaggio. 

Come mai questo amore per l’Italia? 

L’Italia ha energia, luce. Una storia e una reale magia che mi attraggono, il paradosso e la complessità che stanno nella sua oscura vita interiore contrapposta alla bellezza esteriore. Ho conosciuto italiani per la prima volta a Melbourne e ho mantenuto quei contatti, poi ho gravitato in Italia da Berlino e mi ci sono ritrovato a viverci dopo un po’, in Sicilia. Catania è stata la mia casa per sei anni e, molte volte, durante lunghe notti di musica e molteplici bottiglie di ottimo vino rosso, sono stato nominato siciliano onorario. È davvero una seconda casa per me. Amo la passione, il mare e paesaggi vulcanici e tutti gli amici che ho lì. Spiegarlo a parole è realmente difficile, perché davvero è qualcosa che, nel tempo, è diventata parte di me.

Nel tempo sicuramente avrai ascoltato tanta musica italiana. Cosa ti piace di più? E di dischi o band recenti?

A dire il vero non ne ascolto molta! Mi piacerebbe perdermi nel mio vagare per il mondo ascoltando musica. Mi piacciono molto i Bachi Da Pietra e dò sempre un’occhiata a quel che fanno i miei amici… Cesare, Manuel, Giovanni Ferrario e a quei luoghi dove è possibile ascoltare qualcosa di interessante. So che l’underground in Italia è in continuo fermento.

E di musica “internazionale”?

Presto attenzione alle cose a singhiozzo. Non distolgo lo sguardo da quel che sto facendo per seguire le mode… sulla strada vai solo a pescare casualmente le cose interessanti. Un nuovo album dei Flaming Lips o Sleepy Jackson, cose così. Personalmente ascolto molte cose vecchie: blues, Coltrane, Ligeti, qualunque cosa che spinta all’estremo possa mostrarmi quello che non so e che ho bisogno di capire.

Che ne pensi di programmi come Spotify o di “fenomeni” come il crowdfunding?

Forse era meglio quando la musica rock era più difficile da trovare, prima di internet… non sono molto interessato alla “democrazia” dell’arte e dell’arte “amatoriale” su Internet. È molto meglio quando è più difficile essere notati perché allora hai bisogno di una reale passione per continuare a creare. Se davvero vuoi esprimere qualcosa, allora sì che devi trovare il modo di farlo, altrimenti non ti importerebbe granché. E se non riesci a comunicarlo dal vivo sul palco, allora non dovresti essere lì. Lascia spazio a qualcuno per cui creare è questione di vita o di morte! Esibirsi è qualcosa di molto più potente che registrare in studio, è personale, immediato e transitorio. Solo per te, solo ora, al momento. Il resto, l’incisione è on line e sempre disponibile, in qualunque momento tu voglia.

Come si presenteranno live i Fatalists? 

Io, Gramentieri, Sapignoli e Giampaoli, così come in We Never Had Control. Useremo vari dispositivi elettronici per aumentare l’atmosfera, sampler, loop station… cose così… Suoneremo entrambi gli album e porteremo il pubblico in uno strano oscuro bellissimo luogo pieno di caos e desiderio. Sarà rumoroso, calmo, intenso, un viaggio totale. Adoro suonare con i Fatalists e amiamo suonare per il pubblico italiano, un pubblico molto cortese e capace davvero di sentire la mia musica col cuore… gliene sarò sempre grato.