HOLIDAY INN, White Man

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Gli Holiday Inn si presentano come progetto recente, ma in realtà le loro prime mosse sono almeno di tre anni fa, praticamente un’era geologica nel quadrante Roma Est, centro di irradiazione culturale dalla produttività assai elevata, fra scampoli di Borgata Boredom, apostasia mainstream e occultismi all’amatriciana. Il pericolo è che di fronte a una tale quantità di proposte (alcune valide ed interessanti, alcune meno), progetti come questo rischino di passare inosservati come l’ultimo dei divertissement estemporanei targati Pigneto: se ti chiami poi come una catena internazionale di alberghi, il rischio è reale. Messo a punto un proprio peculiarissimo suono, il tempo di una cassettina, un paio di split e un 7”, il duo riesce a riscuotere il dovuto in termini di consensi, anche grazie all’efficacia delle devastanti esibizioni dal vivo: Bob Junior (Bobsleigh Baby, Trans Upper Egypt, Hiss, nonché tenutario di Myownprivaterecords e membro fondatore del Fanfulla) compassatissimo dietro alle macchine (un vecchio synth, una drum machine ed effetti del caso), solo ogni tanto qualche passetto accennato, e il dinoccolato Gabor (Aktion, Metro Crowd) lì a dimenarsi come un ossesso nel suo blazer bianco indossato a pelle, una cosa a metà fra Iggy Pop e Alan Vega. Il paragone con i Suicide, del resto, nasce già spontaneo, ma in realtà il vero riferimento degli Holiday Inn due sembra trovarsi Oltralpe, patria di Bob Junior e di una scena synth punk che annovera gruppi quali i misconosciuti Anals, duo di Metz dedito musiche dal ph basso quanto quello dei romani: un riferimento questo in verità nemmeno troppo velato, considerato che nel bel 7” dello scorso anno è contenuta una loro cover.

Il disco in questione contiene quattro tracce in cui minimalismo e rozzezza vanno a braccetto e costituiscono la cifra stilistica del gruppo, frutto comunque di una ricerca sfociata nella scelta di far uscire voce e macchine attraverso un unico amplificatore, in modo da assicurare un suono ultra lo-fi, sporco, viscerale, privo di orpelli, come la periferia sventrata che gli Holiday Inn si propongono di mettere in musica, disturbante come il vero punk dovrebbe sempre essere. La voce di Gabor è una lama, sì arrugginita, ma abbastanza tagliente da lasciare il segno, Bob Junior accompagna con i suoi fraseggi insistiti, arrotati e distorti come in “Who’ll Join My Tribe” o saltellanti come in “Edward”. La title-track è un crescendo di rabbia fra dissonanze, lente ripartenze e un finale ossessivo, la traccia tre invece è una versione di “Mushroom” dei Can che però perde tutta la languidità dell’originale per diventare un inno all’apatia. Il tutto risulta altamente contagioso e di sicuro divertente, una miscela caustica capace di infondere in chi vi presta orecchio un’esigenza irrefrenabile di ciondolare o improvvisare balletti spastici.

Il disco è uscito il 18 giugno per NO=FI, l’etichetta di Toni Cutrone, in versione 12” single side: scelta bizzarra, a meno che tu non voglia lavorare di grafica su di un lato. Per minutaggi simili sarebbe preferibile il 10”, ma questa è una mia idea, opinabilissima.