HEROIN IN TAHITI, Remoria

La fondazione della città di Roma è legata – è storia nota – a un fatto di sangue, a uno scontro tra fratelli degenerato in tragedia: cosa sarebbe successo però se in quell’aprile del 753 a.C. ad avere la meglio fosse stato Remo? Che ne sarebbe stato della Città Eterna? Al posto di Roma ora ci sarebbe Remoria.

L’ultimo lavoro degli Heroin In Tahiti (disponibile da oggi su etichetta Soave Records, primo numero della collana Grandangolo, curata da Donato Epiro) si muove nell’ambito dell’ucronia, di una rappresentazione alternativa e fantastica del reale, immaginando una città diversa rispetto a quella di provenienza, una sorta di doppio deformato della Roma attuale. Il sole e la violenza del vecchio disco sembrano tutt’altro che sopiti, anzi si riverberano nei solchi del nuovo, dando forma a quei paesaggi torridi ormai marchio di fabbrica del duo Mattioli-de Figueiredo.

Remoria è composta da sette pezzi privi di un titolo vero e proprio, ma contrassegnati dalla numerazione romana: lo svolgimento sembra agganciato saldamente alle vicende della città immaginata e dai toni epici delle prime tracce ci si sposta verso una visione più complessa, meno decifrabile e direi più intrigante. In un Agro Romano bruciato dal sole il disco sembra prendere le mosse dall’epico duello, raccontato qui attraverso la lente del cinema di Sergio Leone, che iniziò la sua scalata all’Olimpo della celluloide proprio dal genere peplum. Il riferimento principale e più evidente della musica degli Heroin In Tahiti alla fine è il maestro Morricone; è possibile tuttavia scorgere nel soffio mediterraneo che pervade la loro proposta musicale l’impronta di un altro illustre protagonista di quello che Mattioli stesso definisce “spaghetti-sound”, l’Egisto Macchi artefice di capolavori come “Il Deserto” o “Città Notte”. Alle suggestioni provenienti da questi numi tutelari i due sovrappongono il loro esotismo tossico, i miasmi elettronici, una musica surf circonfusa di un’aura tragica. Progressivamente ci si allontana dalle lande morriconiane e il marranzano, i timpani, il frinire delle cicale cedono il passo prima a un sassofono imbizzarrito di matrice free jazz, quindi a una psichedelia febbricitante, fino al fastoso finale a base di synth, suggellato da un laconico “affanculo”, quello rivolto dal poeta Aldo Piromalli, durante il Festival Internazionale dei Poeti di Castelporziano del 1979, all’indirizzo dei filosofi. Un brusco risveglio, non c’è che dire.