HECKER / OKKYUNG LEE, Statistique Synthétique / Teum (The Silvery Slit)

Questo duplice lavoro si colloca all’interno della raccolta “Portraits GRM” (nella quale sono già apparsi Jim O’Rourke, Lucy Railton e Max Eilbacher), pubblicata da Editions Mego e curata da François Bonnet, anche (e meglio) noto come Kassel Jaeger. Scopo dei “ritratti” è quello di mettere a fuoco l’azione artistica sperimentale come processo di scoperta piuttosto che come inevitabile preludio alla pubblicazione di un album.

Esperimento è, secondo John Cage, “qualunque azione – o insieme di azioni – il cui risultato non sia conosciuto a priori”. Applicando questo concetto al materiale qui proposto, si delinea uno scenario non convenzionale, proiettato ai limiti della pratica artistica. Nel caso del “doppio” Statistique Synthétique / Teum (The Silvery Slit) – il primo a nome Florian Hecker, il successivo firmato da Okkyung Lee – è l’oggetto sonoro in sé ad essere analizzato, esasperandone i paradossi e le incongruenze fino ad un punto di rottura “allucinatorio”, per usare le parole dello stesso Bonnet.

Stiamo parlando del fulcro della nostra attenzione uditiva, la sorgente delle onde di compressione e rarefazione che, interagendo con orecchio prima e cervello poi, danno origine alla cascata interpretativa alla quale diamo il nome di “suono”. Può essere uno strumento musicale tradizionale, come un violino o un pianoforte, può essere il caos acustico del mondo attorno a noi o, per tornare a Cage, l’illusione del silenzio. Linguaggio, cultura, neurobiologia… daranno poi una direzione precisa al fenomeno, permettendoci di associare in maniera (forse) univoca fonte ed evento acustico.

Cosa succede quando uno, o più, dei processi di modellamento e riproduzione del materiale vengono manomessi? Cosa accade se la relazione fra ciò che si ascolta e la lettura che ne viene fatta si disallinea? Si sviluppano proprio quegli stati “allucinatori” – ma che da un punto di vista psicopatologico sarebbe meglio definire “illusori” – citati prima.

L’universo acustico di una scogliera, catturato durante una giornata ventosa, si scontra, sotto l’abile mano di Hecker, con il suo negativo, e da questa terra liminale interposta fra i due emergono xenolalie indecifrabili, vibrazioni al limite dell’udibile e cigolii meccanici, a riprova di come la stessa trama sonora possa dare origine a nuovi paesaggi inattesi.

Durante “Statistique Synthétique” l’uso massiccio delle tecniche di sintesi “granulari” da parte dell’artista viennese è più che evidente e non rappresenta una novità se consideriamo il suo impegno più che decennale nella computer music e in ambienti limitrofi. Si tratta, in breve, di campionare un piccolo frammento – granulo per l’appunto – della fonte originale e utilizzarlo come base per la costruzione di onde completamente nuove. L’oggetto contiene quindi già in sé, in potenza, scenari alieni alla sua natura, manifestazioni che possono essere “evocate” con la giusta proporzione di tecniche ed esperienza. L’abilità di Hecker, però, non si limita a una saggia conoscenza della téchne ma è da ricercarsi nella consapevolezza del limite: snaturare un field recording è un’operazione tanto facile da essere ormai banale, ben più difficile è muoversi nell’interfaccia fra elemento originale e costrutto artificiale, nella sfumatura che lascia spiazzati e rende epifanica l’esperienza dell’ascolto.

Il brano del quale abbiamo parlato finora, e che troviamo sul primo lato di questo disco “di coppia”, cerca in maniera molto esplicita il disorientamento, la separazione fra sensazione e interpretazione. L’esperimento si direbbe superato a pieni voti se non fosse per il paragone che, in modo quasi automatico, viene fatto con Okkyung Lee, seconda co-protagonista di questa proposta. La violoncellista sud coreana, ormai punto di riferimento nel panorama free, impro e affini, plasma l’oggetto sonoro in una maniera del tutto diversa dal collega. La manipolazione è in prevalenza fisica, materica, viscerale. L’ausilio impalpabile del software, che tende, come detto prima, a far emergere spettri e visioni dagli strati più profondi del materiale, qui ha un ruolo marginale. La mano, letteralmente, estende il violoncello oltre i suoi stessi limiti, si annida nelle fessure che, impercettibili, crepano la prassi ortodossa, e ne fa ferite aperte, voragini e baratri. È lì, nelle cavità telluriche del legno, che i venti minuti di “Teum (The Silver Slit)” prendono lentamente forma, si avvolgono, si restringono e si dilatano, respirando come il grande “altro” delle profondità. La composizione rapisce e, anche quando riverberi ed echi si manifestano, facendo deviare il percorso verso lidi più astratti, la coerenza narrativa non ne viene penalizzata, anzi, sottolinea ancora una volta lo scopo ipnotico dell’esperimento.

Un ascolto interessante, dunque, testa a testa fra due esploratori del terreno impervio fra realtà e illusione percettiva. Entrambi, con Lee in stato di grazia che mantiene un leggero vantaggio, dimostrano una padronanza di strumenti e mezzi fuori dal comune, senza mai scadere nel manierismo e cesellando due brani di grande intensità. Attendiamo i prossimi “ritratti”.