GRISCHA LICHTENBERGER, KAMILHAN, Il Y A Péril En La Demeure

Una delle mie interviste più difficili è stata quella a Grischa Lichtenberger, che ormai è presenza fissa da queste parti. Con lui ho sempre la sensazione di non aver mai finito il discorso e di non aver mai afferrato tutto. Onestamente, tanto per cambiare, non so perché qui metta in relazione ancora una volta un suo disco con la dicitura “il y a péril en la demeure”, se non per legarlo ai suoi lavori precedenti. È un concept molto strano, così come quello del suo trittico di ep. Più facile capire il senso di “Kamilhan”, una volta che Grischa ce l’ha spiegato: sarebbe una parola che in realtà non esiste, sentita nientepopodimeno che da Ernst Bloch durante la sua infanzia e rimastagli impressa nella memoria per tutta la vita (tanto da trasformare la cosa in un aneddoto, appunto) nonostante il suo non voler dire nulla. Che da piccoli si rimanga colpiti da certe parole e dal loro suono, al di là del loro significato, mi sembra un fatto abbastanza frequente, non so quanto vada spiegato e quanto senso abbia spiegarlo. Nella musica, poi, specie da bambini, ci capita di cantare un pezzo straniero ripetendo alla meno peggio ciò che abbiamo sentito, anche senza capirlo davvero (magari a un inglese o a un americano non è quasi mai successo, ma a un italiano continuamente bombardato dal pop inglese e americano sì), perché ci piace a prescindere, epidermicamente. In Kamilhan Grischa imita col computer voci umane, ma ha cura di non far dire loro nulla che significhi davvero qualcosa, forse a sottolineare l’importanza della melodia vocale o della voce in sé stessa più che di ciò che desidera comunicare col linguaggio (concetto vecchio come il cucco, a esser sinceri: mi vien da scrivere in mezzo secondo Dead Can Dance senza googlare e produrmi in grandi spiegazioni). Interessante però ciò che ottiene: per la prima volta diventa accessibile, attingendo come sempre dal glitch e dagli Autechre, ma per fabbricare strane canzoni, in certi casi verrebbe da scrivere r’n’b, creato però da un’intelligenza artificiale istruita da un programmatore che ha provato più o meno a spiegarle il genere, magari prima che gli finisse il budget o che gli scadesse il contratto. Dunque, al netto di come ci è arrivato, cioè attraverso cerebralismi troppo difficili da seguire, Lichtenberger è riuscito forse a pubblicare il suo disco più originale, che suona come se la raster durante questi ultimi anni avesse condotto in gran segreto esperimenti sulle popstar, iniziando da Beyoncé Knowles.