GOOD WILLSMITH, Things Our Bodies Used To Have

GOOD WILLSMITH, Things Our Bodies Used To Have

I Good Willsmith sono un trio in giro da poco tempo, ma già spinto da tutte le webzine che contano. Nascono a Chicago quando Doug Kaplan e Maxwell Allison, che sono a capo anche dell’etichetta Hausu Mountain, decidono di mettersi ad armeggiare con una varietà di strumenti elettronici (e non) e di tirare su una nuova band, trovando in Natalie Chami (ai synth) il loro completamento.
Quella dei Good Willsmith è definita “improvvisazione strutturata” e questo Things Our Bodies Used To Have è il frutto di una sola registrazione senza sovraincisioni, quindi abbiamo inevitabilmente fasi deliranti, ma è sempre come se il gruppo riuscisse a riafferrare il filo del discorso, anche perché il ripetersi di loop vocali stordenti e soprattutto di alcune melodie di synth (direi anche di un certo timbro di synth) lo “colora” in modo abbastanza uniforme, come se la band fosse la nostra guida in una caotica città straniera, ma ci aiutasse a familiarizzare con essa ripassando di continuo in alcuni luoghi-chiave.
Quanto a modo di apparire e di porsi i tre mi ricordano i Black Dice, in pratica studenti d’arte strambissimi che con la musica vogliono generare creature buffe e imperfette. Dal punto di vista più strettamente musicale, invece, i Good Willsmith sono eredi sui generis dell’ondata di progetti do it yourself mezzi noise, mezzi kosmische d’inizio secolo, quindi ecco che la bizzarria dei Black Dice finisce per essere uno dei volti di un sound mutante e con pochi battiti, vicino anche a quello di Emeralds e Oneohtrix Point Never (quello degli esordi). Come fa notare giustamente Fact Magazine, almeno per quanto riguarda quest’ultimo album, c’è pure della psichedelia come la conoscono i nostri genitori (o i vostri nonni, ormai), dato che pare che Kaplan sia un ammiratore dei Grateful Dead: se uno si ascolta “Not Your Kids”, capisce subito cosa intende il webmagazine inglese.

Il giorno che prenderò qualche sostanza e deciderò di fare un giro al Luna Park, probabilmente mi sembrerà di stare in un disco dei Good Willsmith. Scenario tutto da esplorare, insomma, anche se di questo passo occorreranno giornate di quarantott’ore.