GODFLESH, A World Lit Only By Fire

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Vi avevamo accompagnati in un limbo di sugose aspettative con la recensione di Decline And Fall a giugno, lasciando socchiusa una porta che possiamo finalmente aprire del tutto: è uscito il nuovo full-length marchiato Justin Broadrick e G.C. Green.

Non è questo il momento di ripercorrere la carriera dei Godflesh, ma di sicuro possiamo dire a posteriori che, tredici anni fa, Hymns non era stato il modo migliore per concluderla. Se siete animali onnivori, non dovreste comunque aver sentito troppo la mancanza dell’iper-produzione della mente di Broadrick, genitrice instancabile di figli, tra i quali non possiamo non citare Jesu, uno di quei progetti che hanno attraversato gli anni Zero a testa alta.

Nelle occasioni in cui l’uscita di A World Lit Only By Fire era stata preannunciata, era stato altresì sottolineato come il nuovo album dei Godflesh non sarebbe stato una cucchiaiata di miele gettata per terra ad attirare api vecchie e giovani, ma un lavoro sudato, all’altezza dei palati più esigenti, stuzzicati dal nome, dal tempo trascorso e dai live in formazione originale che in tempi recenti hanno attraversato anche l’Italia.

La prima traccia, “New Dark Ages”, arriva senza preamboli al nocciolo della questione, cioè che siamo di fronte a un album che rimesta con le mani nel torbido del passato, ma impugna nuove armi. La cattiveria della voce di Broadrick raggiunge un livello più alto, il linguaggio brutale degli inizi si arrocca sulle spalle significati più ampi. Suoni più limpidi accompagnano riff monolitici e riempiono vuoti esistenziali dalle dimensioni cosmiche, ma le macerie che questo nuovo fuoco illumina sono sempre le stesse di una decina di anni fa. Purtroppo è proprio il voler riproporre la fortezza delle origini (alla quale i fan sono affezionati) in una veste moderna, plastificata e posta sotto i riflettori – pur senza la presunzione da band pilastro – che fa nascere inequivocabilmente una leggera smorfia di disappunto durante l’ascolto. La stessa drum-machine infernale che ha fatto rimbombare casse toraciche per anni è contrastata dalla nitidezza di una chitarra a otto corde che trascina tutto a un livello molto più chiaro e superficiale, impedendoti di affogare nel buio ossessivo e pulsante che desideri ardentemente da un disco dei Godflesh. La monotonia accompagna inesorabile “Deadend” e arriva a livelli esasperati nelle insensate frenesie ipnotiche di “Obeyed”, “Cursed Us All” e “Carrion”, che si compenetrano a vicenda in una manciata indistinguibile di riff simili tra loro e totalmente privi di slancio, con un finale che striscia nello sludge senza la minima convinzione. “Imperator” risveglia dal torpore, una marcia serratissima da cui emerge lontana la voce di Broadrick, che finalmente canta, risucchiandoti per un attimo in un mondo di false speranze. Se nelle tracce precedenti le urla grosse, forzate e fin troppo distinguibili non riuscivano comunque a risollevare un sound piatto e asettico, lo stesso accade nelle ultime (“Forgive Our Fathers”), nelle quali – nonostante gli echi apprezzabili – la musica non ha alcun tipo di marker che la faccia emergere e che incuriosisca l’ascoltatore più attento. C’è ben poco che stuzzica le orecchie, mentre le nuove munizioni di cui sopra, che in Decline And Fall ci eravamo risparmiati senza saperlo, si rivelano quasi del tutto fallimentari. Se A World Lit Only By Fire lascia un velo di dubbio e insicurezza sulle prossime mosse in studio, speriamo crei almeno l’occasione buona per rivedere i Godflesh dal vivo: magnetici e concentrati sul meglio della loro discografia, sul palco non hanno ancora deluso nessuno.