GODFLESH, Decline And Fall

Godflesh

Sulle reunion si è discusso ampiamente, ogni volta arrivando sempre alle solite conclusioni: spesso e volentieri sono un revival evitabile, ma a volte funzionano, e quando è così mettono d’accordo tutti. Il ritorno dei Godflesh sembrava inizialmente limitato solo a sporadiche apparizioni live (prima delle quali, all’Hellfest del 2010): The New Noise era presente in almeno due di queste (a Palestrina nel 2012 e al Roadburn nel 2013), potendo constatare come il duo inglese fosse, almeno dal vivo, più in forma che mai (per fortuna, accompagnati da una drum machine, lasciando da parte la possibilità di suonare con un batterista vero). Oltre ai primi tour, uscì anche il primissimo pezzo registrato da Justin Broadrick e G.C. Green dai tempi dello scioglimento della band: la cover (ottima) di “F.O.D (Fuck Of Death)” dei thrashers canadesi Slaughter, presente su di un 7” Flexi allegato a Decibel Magazine.

Ora, con Decline And Fall, abbiamo davanti il primo materiale originale dal 2002, il che rende la loro una reunion al 100%. L’ep, di sole quattro tracce, si apre con Ringer, una mattonata di sei minuti e mezzo, con un riff portante semplice ma efficacissimo, che ci riporta dritti ai tempi non solo di Streetcleaner, ma anche del primo ep omonimo. La struttura di questa canzone non mostra nulla di nuovo riproponendo lo schema classico, tipico del loro songwriting degli esordi: riff massicci, di chiara derivazione metal, con alienazioni noise/industrial nel mezzo. Si può dire lo stesso anche dei tre pezzi successivi (“Dogbite”, “Playing With Fire” e la title-track conclusiva): la voglia di sperimentare il più possibile, di esplorare i confini del loro sound, ampliandoli continuamente, non sembra più far parte delle loro prerogative. L’unico autentico elemento di novità è la 8 corde di Broadrick (modello signature costruito per lui dalla Blakhart), che rende il sound molto più pesante e ribassato di tono, oltre che più moderno. La produzione è ottima: valorizza soprattutto il fattore “heavy”, creando un muro di suono che ormai solo loro possono vantarsi di avere, risultando però la più pulita della loro intera discografia. Anche la voce sembra più curata, sempre meno persa nel marasma industriale. La label questa volta è la Avalanche Recordings, fatta eccezione per l’edizione giapponese, curata dalla Daymare Records, nella quale sono presenti anche due versioni “dub” di “Ringer” e “Playing With Fire”. Probabilmente una cover thrash, come antipasto ad un ritorno in studio, era quello che ci serviva per capire che direzione stilistica avrebbero preso: più metal, più riff “in your face” e – come detto – drasticamente meno sperimentazione. Allo stesso modo dei Carcass, anche i Godflesh scelgono di puntare su una formula vecchia, già sentita, ma che riescono ancora a riprodurre in maniera ottima, senza che sappia di “minestra scaldata”. Se vi aspettate una logica prosecuzione al sound, più vicino al noise, di Songs Of Love And Hate e Hymns, vi sbagliate. L’impressione è che quella voglia di sperimentare Justin Broadrick l’abbia soddisfatta in altri progetti come Jesu, Final, Greymachine o JKFlesh: riunendo i Godflesh gli è tornata la passione per i ritmi ossessivi, gelidi e monolitici che marchiavano l’ep omonimo d’esordio. Per il momento, questa strada gli riesce benissimo: tutti i quattro pezzi sono davvero ottimi e di sicuro live saranno ancora più d’impatto. Cresce quindi l’attesa per World Lit Only By Fire, il loro nuovo full length atteso per settembre, che ci farà capire definitivamente se la loro direzione è questa, o se hanno in serbo qualcos’altro, che per il momento preferiscono non svelarci.

P.S.: In questo periodo si parla tanto dei Novanta: i Godflesh sono stati uno dei gruppi più innovativi degli ultimi vent’anni, per questo, ogni volta che parliamo di quel periodo, dovremmo avere tutti ben presente quanto la musica di buona parte dei nomi più noti non sarebbe stata la stessa senza di loro.