Giovanni Maier: gesti a mani sporche

Monfalcone, 21/06/2018 – Associazione Nuovo Corso – Progetto 4×8 – Il Carso in Corso – GIOVANNI MAIER QUINTET – Francesco Ivone tromba – Flavio Brumat sax tenore/sax contralto/flauto – Lauro Rossi trombone – Giovanni Maier contrabbasso – Urban Ku ar batteria – Foto Luca A. d’Agostino/Phocus Agency © 2018 // La foto “in copertina” è sempre © Luca d’Agostino ed è stata scattata a Fusea (Tolmezzo) il 03/09/2018

Giovanni Maier è una delle figure più rappresentative in Italia in quella terra di confine che è il jazz declinato nelle sue forme più avanzate, libere e meno conciliante con la retorica consolatoria dell’intrattenimento e la musique d’aujourd’hui; terra di confine che è anche quella che abita, essendo docente a Trieste e vivendo in provincia di Gorizia, quindi in quel Friuli Venezia Giulia che è laboratorio fertile di dialoghi tra interpreti talentuosi e spericolati e suoni che scavalcano ogni steccato (da Giorgio Pacorig a Flavio Zanuttini, da Massimo De Mattia al giro di DobiaLab e Hybrida, dai Maistah Aphrica a Stefano Giust, e l’elenco è per forza di cosa assolutamente limitato). Uno dei suoi ultimi lavori discografici è stato proprio un live a Nova Gorica (pubblicato dalla Klopotec di Iztok Zupan nell’autunno 2020) della Orchestra Senza Confini/Brez Meja Orkester, condotta da Maier assieme al vulcanico percussionista sloveno Zlatko Kaučič. Con il largo ensemble hanno collaborato, tra i tanti, personalità del calibro di Evan Parker, Saadet Türköz, Ab Baars, Joëlle Léandre, Tristan Honsinger. Di questo e molto altro abbiamo conversato, dando spazio ad una voce orgogliosamente, cocciutamente non allineata.

Mi racconti il tuo primo ricordo musicale?

Giovanni Maier: Mio padre era un musicista dilettante di musica popolare e quindi i miei primi ricordi musicali sono legati a lui che suonava la fisarmonica o il clarinetto; se invece intendevi un ricordo che mi vedeva come protagonista, allora mi vengono in mente le prime lezioni di musica, sempre con mio padre. In particolare mi è rimasto impresso il brano “Cielito Lindo”, della tradizione messicana, che è il primo brano che ricordo di aver suonato con la fisarmonica.

Sei docente al Conservatorio: mi racconti il tuo percorso e il mondo accademico da dentro? Come siamo messi in Italia, da questo punto di vista, per la tua esperienza?

Io insegno in conservatorio da 10 anni e quindi, visto che ho 55 anni, sono abbastanza un neofita… fino a 10 anni fa la mia attività concertistica era decisamente molto più cospicua rispetto ad adesso e quindi semplicemente non mi sono mai posto il problema di insegnare. Però, adesso che faccio parte di quel mondo, devo dire che è un’esperienza davvero molto stimolante, sia dal punto di vista umano che musicale; per fortuna il livello musicale ed intellettuale degli studenti è in media molto buono e quindi è possibile impostare la maggior parte delle lezioni in termini di produzione musicale vera e propria. Ciò ovviamente rende il mio lavoro molto stimolante e gratificante.

Il Friuli Venezia Giulia pullula di musicisti talentuosi e spesso anche avventurosi: da te a Giorgio Pacorig, da tutto il giro Maistah Aphricah a Flavio Zanuttini, da Glauco Venier ad Elsa Martin, da De Mattia a Giust, e ce ne sarebbero ancora. Com’è la tua impressione da “indigeno”? La giunta regionale leghista come si confronta con un humus così fertile?

La mia impressione da indigeno è che è molto bello vivere in una piccola regione dove posso confrontarmi con molti musicisti validi e, soprattutto, intelligenti. Si tratta di un humus davvero fertile, adatto a “colture” molto diverse tra loro e soprattutto favorisce gli innesti e gli incroci, che sono le tecniche di coltivazione più adatte per irrobustire le piante selvatiche… Fortunatamente, negli anni, si è creata una rete di relazioni molto robuste e stabili tra i vari operatori culturali e quindi non ho mai sentito l’esigenza di andarmene per cercare fortuna altrove, come invece credo sia successo con maggior frequenza in altre zone d’Italia, già alcuni decenni fa… in questi momenti bui ovviamente è tutto congelato, e questo mi deprime non poco, ma spero che al più presto il “disgelo” faccia sbocciare tutte le piante e che la Primavera finalmente ci permetta di produrre nuovi frutti e nuova linfa.

Mi parli del progetto Orchestra Senza Confini? La vicinanza con la Slovenia e con un instancabile improvvisatore come Zlatko Kaučič è un bello stimolo, immagino. Il disco sta in una fertile terra di mezzo dove le parole che si ostinano a voler definire tendono a perdere il significato consueto. Aleggia un clima di splendida minaccia, di veglia, con cui personalmente le mie orecchie vanno a nozze. Come lavorate?

L’Orchestra Senza Confini/Orkester Brez Meja è stata formata dieci anni fa unendo due piccole realtà orchestrali, l’italiana DOB Orchestra (nata in seno ai Laboratori Creativi di Dobialab a Staranzano, in provincia di Gorizia) e il Kombo guidato da Zlatko nell’ambito della scuola di musica della città di Nova Gorica in Slovenia. Abbiamo iniziato esibendoci al Brda Contemporary Music Festival per poi approdare anche in altre situazioni concertistiche. La tecnica usata è quella della doppia conduction: io e Zlatko dividiamo la formazione in due metà e ognuno di noi si occupa di plasmare i suoni con il gruppo di sua competenza. Diciamo che i risultati, secondo me, sono molto positivi perché in questo modo è possibile organizzare la musica su molteplici piani paralleli. Naturalmente il motivo della buona riuscita delle nostre performances è dovuto essenzialmente alla bravura e all’esperienza dei musicisti, circa una ventina, metà italiani e metà sloveni, e di diverse generazioni, dai ventenni ai settantenni….

Come si inizia a improvvisare? Tu, come hai fatto?

A quanto ricordo non è stata una scelta: quando avevo cinque anni mio padre portò a casa una tastiera e io, quando i miei genitori uscivano, andavo a suonarla in gran segreto… non avendo alcuna cultura musicale potevo semplicemente improvvisare e cioè gioire dei suoni che creavo, cercando di volta in volta di capire la logica con la quale essi cambiavano a seconda dei miei gesti.
Questo è il motivo per cui, quando sento qualche cretino dire che prima bisogna imparare a suonare e poi si può improvvisare, mi arrabbio molto….

Cosa stai ascoltando in questo periodo e come stai vivendo questi lunghi mesi complicati? In che modo influiscono sul tuo lavoro?

Come dicevo qui sopra, questa impossibilità di percorrere i fili della rete di relazioni che ho tessuto in tutti questi anni mi deprime un po’. Comunque sono molto prolifico con il mio progetto pluridecennale di contrabbasso solo e sto lavorando molto sul mio strumento, quindi. Spero però di poter presto capitalizzare questo lavoro quotidiano e solitario suonando assieme ad altri musicisti, anche se in realtà sto cercando di non interrompere del tutto i contatti, a volte persino sperimentando modalità “altre” per interagire con musicisti lontani, come lo streaming, lavorando di creatività per aggirare gli inevitabili problemi di latenza.
Per quanto riguarda gli ascolti, ti cito alcuni album che negli ultimi mesi sono rimasti a lungo vicino al mio lettore di cd:

Sonny Rollins and Coleman Hawkins – Sonny meets Hawk

Andrew Hill – Point of departure

Barre Phillips – Camouflage

Charles Ives – Sinfonia n°4

Van Morrison – Astral weeks

Come pensi la musica? La “vedi”, la scrivi, la capti intorno?

La vedo; molto spesso parto da un’idea grafica. O comunque, per semplificare, traduco in immagini ciò che capto intorno (che è un po’ come scrivere, ma in maniera semplificata).

Cinque dischi che hanno segnato la tua vita da ascoltatore?

Igor Stravinsky – La sagra della primavera

John Coltrane – Transition

Ornette Coleman – Free jazz

Tim Berne – Fulton street maul

Giacinto Scelsi – Trilogia per violoncello solo

Fonti di ispirazione al di fuori della musica?

Sicuramente la pittura; quando vado a visitare un museo esco sempre molto carico e pieno di idee…

Anche i sogni intervengono nel tuo processo creativo?

Purtroppo li ricordo molto raramente. Però una volta mi è successo di ricevere in sogno la visita di una donna che mi ha cantato un tema musicale, che poi ho trascritto e che suono molto spesso.

Se non facessi il musicista che faresti nella vita?

Forse avrei potuto avere una vita altrettanto felice facendo il contadino o il giardiniere: anche queste sono attività creative, nel senso letterale del termine, e che coinvolgono anche l’attività fisica. Più verosimilmente però è probabile che io avrei fatto qualche altro lavoro con il quale non ci si sporca le mani ma che non mi avrebbe reso felice…