GIACOMO SALIS PAOLO SANNA PERCUSSION DUO, Humyth

La stanza in cui entriamo è disadorna. Qualcuno ha già dipinto questa scena. È musica del dopo, il suono di una fine. Nulla resta da raccontare, sono solo orme di storie che furono, minimi detriti di un tempo in cui le cose avevano direzione, senso. Come il mondo post apocalittico de “La Strada” di Cormac Mc Carthy (se non lo avete letto, fatelo, è uno dei più grandi libri della letteratura contemporanea, e forse non solo): un vagare assorto e sorvegliato al tempo stesso tra paesaggi avvolti in una nebbia che sembra liquido amniotico; siamo nel mondo fuori o nel grande utero della madre, che nutre e divora? Un vento artico, secco, spazza le poche forme di vita che resistono in queste lande aride, arte povera e terminale quella che ascoltiamo in queste cinque tracce di Humyth, del duo di percussioni e oggetti formato da Giacomo Salis e Paolo Sanna. Dedicato al grande Steve Reid e mixato da Simon Balestrazzi , il disco indaga possibilità timbriche, spazi e silenzi con austerità e rigore quasi zen. Sfruculiare di corde, stridori, soffi, rotolare di minuscoli sassi, passi incerti e cauti sul bordo del vuoto assoluto: la prima traccia (sono tutte senza nome) per oltre 10 minuti chiede uno sforzo di pazienza all’ascoltatore, che deve mettersi nella giusta predisposizione per entrare in questo universo inospitale e semideserto. Ma il fascino del disadorno comunque sa catturare l’attenzione: la seconda traccia è un quasi dub acustico, un gioco di echi lontani e risonanze, un rituale che cresce d’intensità sino a farsi techno primitiva e sciamanica, senza usare alcun dispositivo elettronico. Materia nuda, quella impastata da questi fabbri, che come nella fucina di Efesto (il semidio, figlio di Era e non di Zeus, che fu buttato giù dall’Olimpo perché troppo brutto) forgiano e piallano inesausti, avvolti in un’aura di mistero, di notte primitiva, di inizio del mondo, o di fine di ogni cosa. Piogge, eruzioni, escursioni nell’inudibile, attraversamenti sul crinale del silenzio (la terza traccia), campane del risveglio, quasi a richiamare dalla terra dei morti, un gamelan minimale e ridotto all’osso (la quarta traccia ) e poi a chiudere di nuovo un vento arcigno e distante, a fiaccare ogni volontà di vita residua, che coraggiosamente non demorde, e come formicuzze laboriose i due continuano, inesausti, nonostante il disastro fuori, a piallare, a lavorare, nell’ombra, al riparo del loro antro, al ritmo di una pulsazione che è quello di un cuore spaventato e solo ma che resta vivo, a tentare di esistere in questo pezzo di mondo così vicino alla voragine che tutto inghiotte. Il finale è un tempo in tre quarti che suona come una cerimonia indigena mentre intorno i demoni si manifestano in tutta la loro potenza: poi il silenzio, da dove veniamo e dove poi, finalmente torneremo. Disco difficile, a tratti inospitale, ma pensato e suonato con buonissima capacità di controllo, dinamiche avvincenti e una vivida attitudine narrativa, nonostante la limitatezza dei mezzi in campo: in grado perciò di offrire vertigini e visioni a chi si darà il tempo e il modo di entrarci.