GHOSTPOET, I Grow Tired But Dare Not Fall Asleep

Sono passati tre anni dall’ottimo Dark Days & Canapés e finalmente Obaro Ejimiwe torna con il suo quinto album. Dopo aver collaborato col produttore Leo Abrahams, in questo disco Ghostpoet decide di scrivere, arrangiare e produrre da solo tutti i brani e quello che realizza è un lavoro scurissimo, a partire dalla stessa copertina.

È mezzanotte e mezza ormai, tolgo il cellophane dal disco arrivatomi per posta stamattina, tiro fuori il vinile trasparente e lo metto sul piatto. Si parte con l’ipnotico giro di basso di “Breaking Cover”, sul quale si inseriscono sprazzi di elettronica e chitarra perfettamente dosati e la voce da crooner di Obaro: I am alive, I am alive, I am alive / I want to die. I sentimenti che emergono dalle parole sono contrastanti – I need a break. I need a break. You need a break. We need a break. They need a break. It’s all on top. There’s too much noise. C’è tutta la confusione, l’angoscia di vivere in questi tempi così difficili. Segue “Concrete Pony” e mi ritrovo nella penombra ad accennare una danza mentre arrivano le parole di Ghostpoet: Why ain’t my jacket like yours – Desperate I’m needing applause – How can I measure my life – Emails and digital likes – Kiss me but nothing feels real – Hit me I wanna just feel – Dreams from a satellite beam – No hope you might as well scream oh no, oh no – There is nothing. Amara ma lucida rappresentazione della società attuale. Nell’introspettiva “Humana Second Hand”, in mezzo alla tensione procurata dagli archi – Once again, the happy pills ain’t doing shit – Ghostpoet si interroga: What becomes of me? Si arriva quindi al climax con “Black Dog Got Silver Eyes”, un pezzo musicalmente minimale ma ricchissimo, che staresti lì ad ascoltare per ore e ore, ad occhi chiusi, riportando indietro la puntina ogni volta, per coglierne ogni sfumatura e tutti gli infiniti piccoli dettagli. E poi “Rats In A Sack”, che chiude il primo lato, attacco diretto all’estrema destra inglese e alla sua politica contro l’immigrazione, e il ritmo che si spezza e Out means out… means out… means out – lo slogan dei “leavers” durante la campagna per la Brexit. Il mood cupo e intimista pervade tutto il disco. Nero, dicevo prima, nero come noir, “This Trainwerk Of A Life” e “When Mouths Collides”, nero come la pece, ma con due squarci, due illuminazioni, i due momenti di respiro più “pop” come “Nowhere To Hide Now” e “I Grow Tired But Dare Not Fall Asleep”, il brano che dà il titolo al disco, dove le chitarre tornano maggiormente in evidenza. Si chiude con la splendida “Social Lacerations” con ritmi che si spezzano, sorretti da un contrabbasso jazz e una chitarra in odore di dub.

Un disco non semplice, che ti entra sottopelle un po’ per volta: piano piano, parola dopo parola, suono dopo suono. Il migliore di Ghostpoet? Questo non so dirlo ancora, ma intanto giro nuovamente lato del vinile e ricomincio ad ascoltarlo da capo.