GERDA VS THE TURIN HORSE

Gerda

Vi abbiamo già segnalato la data del 26 gennaio (al CSA Sisma di Macerata) in cui si alterneranno sul palco Gerda e The Turin Horse, due  nomi cui abbiamo dedicato spazio nell’anno appena trascorso e che hanno saputo conquistarsi la nostra attenzione con i rispettivi dischi. La scusa ci è sembrata perfetta per metterli a confronto e capire cosa li accomuna e differenzia, soprattutto per andare oltre all’usuale promozione e allargare il discorso a temi di portata più generale. Ecco cosa ci hanno raccontato.

Avete vissuto entrambi l’epoca della d.i.y. conspiracy e della coproduzione come espressione di specifiche esigenze, non solo a livello discografico, ma anche – se non soprattutto – ideologico. Cosa credete rimanga di quell’esperienza nell’attuale panorama? Credete che oggi la scelta di co-produrre mantenga in sé quella necessità di creare e rafforzare legami o sia divenuta ormai una semplice prassi per risparmiare/semplificare le spese di produzione/distribuzione a fronte di un mercato sempre più pigro? 

Enrico (The Turin Horse): Domandone da mille punti. Quello che è rimasto di quel periodo credo sia per prima cosa la musica. Secondo me c’è un po’ di stanchezza fisiologica da parte dei più anziani, poco ricambio generazionale e meno ideologia. Chi ha un’etichetta è un eroe perché nonostante tutte le avversità e le contraddizioni continua a permettere ai gruppi di far circolare la loro musica. Sul discorso “coproduzione come prassi o come necessità” penso che la mia esperienza in merito non sia così rappresentativa perché non ho pubblicato molti dischi. Sinceramente sento di avere una posizione un po’ contraddittoria in questo circuito perché, pur sentendomi parte di esso, mi sono sempre percepito ai suoi margini. Con le persone con cui ho collaborato ho sempre cercato un’intesa con risultati molto disomogenei. Con qualcuno ho un rapporto significativo e con qualcuno no… Su questo aspetto sono le persone che fanno la differenza. Sinceramente per me al centro di tutto c’è sempre stata la musica. Non ho mai visto il giro d.i.y. come un mezzo per trovare degli amici, ma come una rete che si occupa di fare e supportare cultura dal basso. Quindi le relazioni che ho creato sono una conseguenza diretta della musica e non il contrario.  Che, detto fuori dai denti, è la differenza che c’è fra masturbarsi a vicenda fra amici oppure tentare di fare cultura.

Alain (The Turin Horse): Allo stato attuale secondo me manca un po’ quel senso di appartenenza a un mondo che cerca nel suo piccolo di essere promotore di idee nuove e che spinge in “avanti”. L’impressione è un po’ quella di esser stati inghiottiti dalle logiche di mercato che internet e i social ci hanno fatto credere siano le uniche possibili. Non voglio essere contro la tecnologia ma credo che il suo utilizzo quotidiano abbia contribuito al distaccarsi da quel senso di azione concreta sul territorio che ha caratterizzato per anni il d.i.y.. Alla fine il senso di tutto sembra che sia “toglieteci tutto, ma lasciatemi almeno il mio computer, il mio cellulare, i dischi dei Minor Threat, il doom, il noise… lasciatemi tranquillo”. Solo che nel frattempo il mondo in cui viviamo si restringe sempre di più. È evidente che la necessità umana di incontrarsi oggi viene in parte tenuta a bada dal surrogato che ci forniscono i social e questa differenza personalmente la percepisco. O forse siamo semplicemente invecchiati e quindi più critici e disincantati.

Alessio (Gerda): Forse per qualcuno è una prassi o semplicemente l’unico modo all’orizzonte per pubblicare un disco. Io penso che, oggi come 15 anni fa, fare le cose insieme abbia un sacco di lati positivi. Spartirsi il lavoro, discutere e decidere insieme aspetti artistici, economici e organizzativi, condividere aspettative e speranze, sono anche esercitazioni collettive per una società migliore.

Anche la società sembra parecchio cambiata ultimamente, mi riferisco alle pulsioni reazionarie, oscurantiste, che stanno sempre più prendendo campo anche sotto forma di insofferenza a ogni spinta culturale potenzialmente pericolosa per lo status quo. Dalla repressione delle opposizioni extraparlamentari, alla chiusura di spazi occupati, al tentativo di demonizzare chiunque cerchi di diffondere solidarietà e supporto per le fasce di popolazione ai margini. Credete questo si rifletta sulla cultura e più nello specifico nella musica?

Enrico (The Turin Horse): Il fatto che negli ultimi dieci anni molti centri sociali siano stati chiusi ha ridotto non poco la possibilità che ottime musiche più marginali ma con un basso valore commerciale continuassero a circolare. Questo credo che abbia anche contribuito ad abbassare il livello di ciò che accettiamo venga considerato valido e artistico dal punto di vista musicale. La musica non è solo intrattenimento mentre ti bevi una birra. Può essere anche altro e questo altro non sempre riesce a trovare il suo posto in una logica di profitto di un locale. Tutta la dinamica che citi nella tua domanda sicuramente ha fatto sì che la musica e la cultura in generale assumessero un ruolo e uno spazio molto diverso rispetto al passato. Secondo me molto più innocuo e meno sovversivo. La chiusura di molti posti occupati ha lasciato un vuoto dal punto di vista culturale che non è facile da riempire.

Roberto (Gerda): Attualmente non c’è né una cultura dominante né una antagonista, non c’è una voce autorevole o una prospettiva critica, riconosciute e collettive a cui la società odierna possa far capo. I governi attuali ignorano ed eludono quel livello di linguaggio e di scontro. Chi di cultura vorrebbe vivere è costretto a mettere in secondo piano il valore del prodotto e, più che pensare a come proporlo sul mercato, deve badare a come vendere la propria persona al mercato. Tutto molto volgare.

The Turin Horse

Venendo a questo ultimo aspetto, credete che la vostra musica possa/debba farsi veicolo di una contro-tendenza e possa, nel piccolo, fornire una scintilla per cambiare la tendenza?

Enrico (The Turin Horse): Il nostro è semplicemente terrorismo sonoro, musica per gli oppressi. Un tentativo di reagire a ciò che ci circonda cercando di preservare prima di tutto la nostra umanità: cercare di entrarci in contatto e tentare di condividerla con chi ha una sensibilità vicina alla nostra. È solo un tentativo, nel modo più brutale e onesto che conosciamo, di rompere l’isolamento e l’indifferenza che stritolano questo Paese. Se riusciamo a fare questo credo sia già abbastanza.

Alain (The Turin Horse): Fino ad ora il nostro obiettivo implicito credo sia stato quello di creare la musica che ci sarebbe piaciuto ascoltare da appassionati incalliti quali siamo. La nostra necessità è anche quella di dare uno scossone a chi decide di ascoltarci e dare un nostro contributo alla “scena” perché sentiamo che ha ancora senso e significato farlo. Almeno per noi stessi.

Alessio (Gerda): Io ho sempre pensato che suonare fosse il mio contributo alla salute collettiva, un radicale invito all’autenticità e alla libertà e quindi alla rivoluzione. Ridete pure, ma è proprio così.

I vostri dischi sono usciti in vinile ma, allo stesso tempo, usufruite dei moderni mezzi di promozione/distribuzione offerti dalla rete come Bandcamp. Qual è il vostro rapporto con la rete e con i social, come sposate il vostro provenire da un mondo in cui i rapporti umani e il formato fisico (dischi, cd, zine) hanno sempre avuto un valore fondamentale con i social e la rete in genere?

Alain (The Turin Horse): Ce ne serviamo con non poca difficoltà. Per diversi anni sia io che Enrico siamo stati distanti dai palchi e questi mezzi, anche se spesso noi stessi li demonizziamo, di fatto ci hanno aiutato a ritessere una rete di persone che ci permettesse di far confrontare la nostra musica con l’esterno. È un rapporto un po’ conflittuale e difficile ma stiamo cercando di trovare un equilibrio…

Roberto (Gerda): Utilissimi e quasi inevitabili per una band, ormai. Dal punto di vista umano li detesto. Ora stando davanti al tuo schermo, non c’è bisogno che tu ti muova, che tu esca e vada nel mondo a rendere la tua vita più interessante. C’è quest’assenza di fisicità che non fa incontrare le persone. Non è solo una romantica nostalgia, questo fenomeno riduce il senso di collettività, che sia professionale, culturale, sociale… Non si è più un insieme, siamo un individuo dopo l’altro.

Mi interesserebbe capire anche il vostro rapporto con l’aspetto grafico/visuale dei vostri dischi e della musica in genere: quanto conta per voi e che approccio avete a questi aspetti? Parlo non solo delle copertine, ma anche di serigrafie, packaging  e in generale di tutto ciò che attiene alla presentazione del disco come oggetto a sé.

Alain (The Turin Horse): L’idea della copertina dell’ep è nata dall’esigenza di rappresentare la nostra nuova identità sonora sotto le sembianze di un immagine potente che potesse, attraverso il suo significato simbolico, catturare l’essenza della nostra musica: il cavallo è un simbolo ancestrale di forza e vitalità ma anche di istinto e irrazionalità. L’immagine in copertina è stata estrapolata da un libro di veterinaria del 1600. In particolare ci ha colpito il fatto che il suo ventre aperto in qualche modo rimandasse alla volontà di esporsi e aprirsi verso l’esterno mostrando le sue vulnerabilità. Attraverso l’uso dell’arte serigrafica, il nostro intento è stato quello di tentare di realizzare un “feticcio”, cioè un oggetto unico e irripetibile che fosse complementare alla musica. La scelta di includere uno zootropo è nata invece dall’esigenza di usare in modo creativo il lato del disco non utilizzato dalla nostra musica.

Alessio (Gerda): Amare una band significa immergersi in un immaginario. Una band non è solo musica: copertine, stampe sulle magliette, titoli, interviste, look, tutto questo fa parte del discorso. Contribuisce a definire quella specifica rappresentazione del mondo che aleggia attorno ad ogni band. Noi con i Gerda la viviamo così perché è così che l’abbiamo vissuta da quando avevamo 13 anni con le nostre band preferite e ci siamo strafogati con tutto il loro ciarpame. Amare una band è come giocare una caccia al tesoro.