Gaetano Liguori vs Jooklo Duo – Musiche libere a confronto

Due generazioni che si incontrano, altrettanti modi – neanche tanto differenti per la verità – di approcciarsi all’improvvisazione. Il milanese Gaetano Liguori e i veneti Jooklo Duo si uniranno sul palco dell’imminente Zuma Festival in un’esibizione unica alla quale vi consigliamo di assistere. Intanto leggetevi le loro dichiarazioni.

Gaetano Liguori

Il free-jazz è il tuo linguaggio musicale (e politico) prediletto, la forma di espressione per la quale tutti ti conoscono. Com’è nata questa passione? So dell’importante eredità famigliare…

Gaetano Liguori: Io vengo dal Conservatorio, mio padre è musicista. Il Conservatorio degli anni Sessanta voleva dire che si ascoltavano Maderna, Berio, Luigi Nono, per cui era un luogo pieno di fermenti, era un luogo vivo, eravamo pochi ma ci davamo da fare. Io poi mi ero iscritto a Musica Elettronica con Angelo Paccagnini, per cui ho cominciato a lavorare sul versante della musica contemporanea, pur studiando i classici, perché in Conservatorio, soprattutto quello di quel periodo, non solo non c’era il jazz, ma proprio non se ne parlava neanche. Poi da parte paterna – e sai che mio zio è Gegè Di Giacomo, che era il batterista di Renato Carosone – ho una famiglia di musicisti alle spalle. Mio padre era in particolare un jazzista, lui suonava con un gruppo free di Giorgio Buratti, che era uno dei primi gruppi free milanesi, e io lì ho cominciato a fare più esperienze ed ascoltando Cecil Taylor ho avuto una specie di illuminazione. Ho ascoltato il suo primo disco nel 1966 e ho deciso che quello era il mio genere. Poi naturalmente ho fatto un po’ di esperienze con dei compagni di Conservatorio, del giro dell’avanguardia, e seguivo mio padre quando andava a fare i concerti con Buratti. Poi nel 1971 avevo letto di questo gruppo milanese che si chiamava Gruppo Contemporaneo, grazie a un bellissimo articolo di Franco Fayenz che parlava di questa band che suonava free jazz, e allora io con grande faccia tosta mi sono presentato appena ho saputo che loro non avevano il pianista, mi sono presentato a Guido Mazzon, che era il leader e suonava la tromba, e sono stato accolto, tant’è che al primo concerto Fayenz mi ha pure visto come una rivelazione… Quello era il mio linguaggio e il mio genere musicale, per cui sono partito dal free-jazz continuando a fare studi scolastici. Poi, ad un certo punto o sceglievo la via del jazz o quella della musica contemporanea, ma ho preferito il jazz perché lo trovavo più vicino al mio temperamento, soprattutto il fatto che politicamente ero influenzato dalla Sinistra quella storica, da Lenin, Mao Tse-Tung, gli idoli di quella generazione, tra questi c’erano anche i Black Power, e la loro musica era il free-jazz. Il fatto che Mingus avesse scritto un pezzo contro il Governatore Faubus, che Archie Shepp avesse fatto “Attica Blues” sui fatti di Attica, dove furono uccisi i fratelli Soledad, tutte queste cose erano proprio il mio riferimento. E il passo successivo, quando si dice essere al posto giusto al momento giusto, in quegli anni, io che frequentavo la Statale, il Movimento Studentesco, etc. è che abbiamo provato a fare dei concerti di jazz per il circuito politico, che prima di me era un po’ appannaggio della canzone politica: nelle manifestazioni alla fine c’erano Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli…

Come vi vedevate rispetto a loro, più in contrapposizione?

Diciamo che ci vedevamo bene, perché io ero la risposta del jazz a quel tipo di sonorità e di situazioni, anche a me veniva la pelle d’oca quando sentivo “Bella Ciao”. Però io invece di suonarla avevo composto “Cile Libero, Cile Rosso”, dove mi muovevo sui piani del jazz,  partendo dal free jazz fino al jazz d’avanguardia. Poi ho cercato di sviluppare un discorso mio, per cui è nato il primo disco, che era proprio Cile Libero, Cile Rosso, tra l’altro l’ha ristampato anche Radio Popolare, ai tempi era uscito in vinile per la PDU.

All’epoca come riuscivi a trovare i dischi?

Quello di Cecil Taylor era arrivato da un amico di mio padre che era stato negli Stati Uniti, il disco in genere arrivava un anno dopo. I dischi di Coltrane o di Miles Davis arrivavano in media sei mesi-un anno dopo, a meno che non avevi la fortuna dell’amico che andava negli Stati Uniti e ti portava l’ultima novità. E poi il jazz partiva sempre da lì. Poi mi ricordo i primi dischi di Giuseppi Logan, alcuni usciti per la ESP-Disk, che pensa, era un’etichetta che scriveva in esperanto, sai che era la lingua che aveva delle parole in tedesco, in inglese, in francese, era una lingua che doveva essere mondiale, poi è fallito come esperimento. In questa serie di dischi c’erano personaggi come Logan, Albert Ayler (quello di “Spiritual Unity”), Milford Graves, Don Pullen, Roswell Rudd, John Tchicai, c’era il meglio della scena americana e newyorkese, anche per loro non si trattava di dischi da grande circuito, ma di album di nicchia.

E arrivava anche qualcosa dall’Inghilterra o dalla Germania?

I primi anni no, stiamo parlando della fine degli anni Sessanta, poi negli anni Settanta si, mi ricordo che arrivavano i Nucleus, però gli inglesi sono arrivati più sull’onda del rock-jazz, tipo Ian Carr. E poi fai conto che ho suonato per anni col grande Paul Rutherford, trombonista, nel 1976 avevamo fatto una specie di seminario itinerante, dove c’erano musicisti americani come Steve Lacy, Lester Bowie e italiani, io e Mazzon, oltre a musicisti europei, fra cui Rutherford e un altro bravissimo, che era Evan Parker, con cui ho fatto anche delle registrazioni. Lì abbiamo legato subito, con Parker ho fatto un bellissimo concerto cinque/sei anni fa.

Hai suonato pure con Demetrio Stratos…

Subito dopo che ti ho dello dell’inizio, quando il jazz è diventato una musica popolare, la mia fortuna è stata che nel 1973/74 facevo un concerto jazz e avevo tremila persone alla Statale. Naturalmente non è che venivano per me, venivano perché c’erano le manifestazioni, c’era il Cile, il Vietnam, e poi s’è creato un circuito alternativo, che era quello non tanto del Parco Lambro – che è stato il massimo dell’alternativo, nel senso che non c’era organizzazione – ma il circuito alternativo nato attorno alle fabbriche, alle scuole, quello degli ospedali psichiatrici, delle piazze. Il jazz negli anni Sessanta era legato al club, il jazz d’élite era fatto da distinti signori che suonavano nei locali. Lì si è aperto questo grande circuito, per cui io facevo 90/100 concerti all’anno – ne facevo anche tre al giorno – e uno come te per esempio era un potenziale organizzatore, c’era il compagno che studiava a Milano e magari d’estate tornava giù al Sud e organizzava il concerto di Democrazia Proletaria, o ai festival dell’Unità, per cui si faceva jazz dappertutto, e io sono stato uno dei nomi un po’ di punta diciamo. Nel 1976 ho fatto un disco intitolato La Cantata Rossa Per Tall El Zaatar, ispirato a un massacro di palestinesi a Beirut. Ho auto un’idea di fare un disco, che allora era in vinile, dedicato al popolo palestinese, e per fare quest’operazione ho chiamato un poeta, ho fatto una cosa che allora era abbastanza nuova – adesso è normale – ho preso i testi di un poeta di lotta, Giulio Storchi, poi ho chiamato Demetrio, che era negli Area, poi c’era Concetta Busacca, che era siciliana e veniva dalla musica popolare,  insomma ho fatto una specie di opera collettiva che è rimasta un po’ una pietra miliare, anche perché in questo circuito che ti dicevo un giorno andava la Marini o Pietrangeli, un altro andavano gli Area e gli Stormy Six, e un giorno andavo io o Giorgio Gaslini che era il maestro più grande di noi. Per cui c’era questo circuito aperto, ed era bello. Poi ci si conosceva, ci si scambiavano opinioni musicali e non solo, e allora quando ho avuto bisogno di un cantante ho chiamato Demetrio Stratos.

E con lui avevi provato prima o avevi fatto solo delle sessions estemporanee?

No, erano jam session che nascevano dopo che avevano suonato noi e poi loro, diciamo che erano cose abbastanza improvvisate. Ho sempre lavorato sull’improvvisazione, nel senso che se chiamavo un musicista sapevo già quello che lui faceva, per cui non dovevo provare, dargli il testo e dirgli fai così o così… Lui faceva quello che voleva. Un po’ quello che è successo adesso coi Jooklo Duo, non è che ci siam trovati e abbiamo detto facciamo a questa maniera, ci siamo trovati e abbiamo suonato.

E come andò con Massimo Urbani?

Con Urbani ci eravamo conosciuti proprio in quegli anni, ci avevano invitati a suonare a Verona al Teatro Romano, con Miles Davis, figurati… una roba che detta adesso fa paura, era il 1973. Davis aveva già fatto la svolta del jazz-rock, era una rockstar. Noi siamo andati un po’ allo sbaraglio. Lo stesso anno abbiamo suonato prima di Charles Mingus a Bologna, e prima di Elvin Jones a Bergamo, ci siamo trovati a passare dalla cantina dell’anno prima ai palazzetti dello sport ed a questo circuito alternativo degli anni dopo. Però come dico io, che sono un patito di film, quando a Matt Damon in “Ocean’s Twelve” gli chiedono, sei pronto? lui risponde sono nato pronto. Io dico che il nostro mestiere è fatto di occasioni, devi farti trovare pronto.

Com’è cambiato con gli anni il tuo approccio alla musica? Quali le esperienze che ti hanno segnato nel profondo?

Praticamente il fatto di partire dall’avanguardia degli anni Sessanta/Settanta mi ha sempre dato un buon potenziale, i miei dischi dell’epoca sono ancora all’avanguardia adesso. Da poco è uscito il disco della Black Sweat Records. Cazzo, quell’orchestra lì era il 1976! Avevo preso a prestito la Jazz Composer Orchestra, quella di Carla Bley, che ha fatto un bellissimo disco sui temi della guerra civile in Spagna ed era con due bassi e due batterie. Ho copiato un po’ di organico, più che una big-band era un’orchestra aperta, non a caso si chiamava Collective Orchestra, davo delle tracce e poi tutti suonavano. Scrivevo anche dei temi e coordinavo il tutto, però c’era un’estrema libertà, non era la big-band di Duke Ellington.

Questo è un periodo storico dove sono diventate di moda – ma non è solo moda per fortuna – tutta una serie di ristampe (compresa appunto quella della Collective Orchestra) che hanno dato nuovo lustro a musiche che si pensava quasi dimenticate. Sei contento che pure i più giovani si siano messi ad ascoltare certi dischi di qualche decennio fa? Che differenze trovi tra i giovani e la cultura di oggi rispetto a quelli dei Settanta?

Che rimane il fatto di essere sempre una minoranza contro una maggioranza. Come diceva una volta Nanni Moretti: io ho scelto di stare con la minoranza, per cui  noi all’inizio, prima di questo boom, facevamo concerti con venti persone e magari dieci andavano via. Poi c’è stato questo boom del circuito alternativo, poi dopo negli anni Ottanta, quando c’è stato il riflusso, ho iniziato a viaggiare, sono stato in Nicaragua, in Eritrea, e per esempio nei primi anni Novanta ho ripreso a suonare per venti/trenta persone in qualche spazio qui a Milano tipo il Teatro Arsenale, etc. dove ho sperimentato. Per me sperimentare è come una scuola, una palestra, io la vedo così. Fai un sacco di cose, suoni liberamente, poi hai cento idee che tiri fuori e magari due o tre possono diventare un pezzo per un disco oppure si possono ripetere dal vivo, però la molla è sempre l’improvvisazione. È come se tu lasci andare la penna e dopo scrivi il libro… Ho avuto vari momenti appunto nei Novanta, ho ricominciato con Martin Mayes e con Mazzon, avevo fatto un album che si chiamava Ronin, dove c’erano Carlo Actis Dato, Mazzon, io facevo tutti duetti e li legavo in studio missandoli, e li missavo anche con la musica etnica. Per cui Mazzon l’ho fatto suonare con dei percussionisti africani che avevo registrato, avevo fatto un’etichetta di musica etnica, perché viaggiavo e registravo le musiche. Actis Dato l’ho fatto interagire coi flauti tailandesi della Thai Box, ho fatto quella che poi sarebbe diventata la World Music.

Col trio avevo sviluppato anche un linguaggio che era meno free, c’erano dei temi, infatti siccome suonavo dappertutto – mentre negli anni Sessanta c’era gente che andava via ed ero contento, perché gli dicevamo borghesi di merda! dopo invece mi dispiaceva se i ragazzi andavano via – ho cercato quindi di fare una musica che tenesse presente anche delle istanze sociali. L’atteggiamento era cambiato perché io ero uno di quelli del pubblico e poi facevo politica, mi sono candidato in politica un sacco di volte, ho fatto pure un disco che si chiama Il Comandante, per Il Manifesto, che ha venduto cinquemila copie, e se tu lo senti non è quello che faccio adesso coi Jooklo Duo, è una cosa un po’ diversa, ci sono dei temi, ho fatto un pezzo dedicato al G8 di Genova. Dopo gli anni Novanta ho ripreso questa sperimentazione, nella mia attività ho sempre avuto un coté più di ricerca, e un altro un poco più politicizzato. Ho fatto altri due cd, uno era L’Anima Di Un Uomo, con Hamid Drake alla batteria e Roberto Ottaviano, un sassofonista pugliese, un disco proprio free tosto. Poi dopo due anni ne ho fatto un altro con Mazzon e mi son tolto lo sfizio di chiamare il batterista di Cecil Taylor, Andrew Cyrille, per cui ho sempre alternato queste cose. L’ultimo cd che ho fatto l’anno scorso è intitolato invece Un Pianoforte Per I Giusti, perché mi sono legato a un’associazione che pianta gli alberi per i giusti della Terra, contro tutte le guerre civili e i genocidi, siamo stati anche a Varsavia e lì ho fatto un disco di solo piano al Conservatorio, con lo Steinway gran coda, dove riprendo dei vecchi pezzi, faccio anche un arrangiamento di “Bella Ciao”, della canzone su Che Guevara, del Quinto Reggimento, ho preso dei brani e li ho ri-arrangiati.

Cosa ascolti in questi ultimi tempi? C’è qualche artista o gruppo che stimi in maniera particolare?

Ma guarda, a me sono piaciuti i due ragazzi con cui suono adesso, mi hanno sorpreso. Non li conoscevo, la proposta di collaborare me l’ha fatta Dome della Black Sweat Records che mi ha detto “vi vedrei bene insieme. E cosi è nato questo trio col quale spero di riuscire a fare anche due/tre cose, se poi riuscissimo a farne qualcun’altra ancora meglio. Però io la vedo più come un “bagno di creatività”, cioè io poi non ho mai contato la musica da un punto di vista economico. Sai, adesso sono andato in pensione dal Conservatorio, quando vai in pensione da lì a 67 anni puoi trovare sempre stimoli nuovi, per quello mi piace; invece di tranquillizzarmi, mi trovo a suonare con due scatenati. Un’altra idea che ho è di fare un gruppo che si chiamerà I Ragazzi Irresistibili, dove voglio chiamare Giorgio Buratti che ha 86 anni, mio padre che ne ha 90 e suona ancora, Mazzon che ne ha 70, cioè chiamare quelli del free duro e puro e magari di fare qualcosa insieme, questa è una cosa che mi piacerebbe molto.

Cosa avete preparato di speciale per lo Zuma Festival coi Jooklo Duo? Ricordo che avete dato un nome preciso a questa esibizione, “free mind jazz explosion”.

Sì, ho lasciato fare a loro, che hanno messo il mio nome in particolare, ma per me anche se mettevano Trio Jooklo andava bene lo stesso. Abbiamo fatto delle registrazioni venute bene e adesso vedremo cosa riusciremo a fare. 

Jooklo Duo

Vi ho visti in un paio di occasioni, sempre a Torino peraltro. Ogni esibizione è stata diversa dalla precedente e la vostra è una proposta che non è affatto facile incasellare. Però, un modo bisogna trovarlo per spiegare ai lettori che tipo di musica fate. Avete mai pensato a una definizione standard della vostra musica o il discorso non vi interessa?

Virginia Genta: Ti diamo ragione, è difficile o quasi impossibile classificarci, parlando più in generale. Non ci piacciono le gabbie di nessun tipo, soprattutto quelle mentali. Non siamo interessati ad essere catalogati, quindi noi stessi in primo luogo evitiamo di darci una definizione. Siamo convinti che la musica – come la vita – sia una continua concatenazione di eventi e situazioni, con conseguenze che si rispecchiano nella ricerca dell’artista e danno origine a nuovi cicli di eventi e situazioni in un vortice implacabile. Tutto il resto è pura fantasia.

Siete tra quei coraggiosi – tra i pochi che lo fanno con convinzione – che hanno suonato spessissimo all’estero. Assieme a Father Murphy e OvO siete davvero dei globetrotter, quasi delle mosche bianche. Chi ve lo fa fare e soprattutto, che fisico avete per poter affrontare viaggi interminabili e per suonare nei contesti più diversi tra loro?

Il viaggio è sempre stata una dimensione fondamentale nella nostra vita, anche se abbiamo poi bisogno di lunghe fasi riflessive nelle quali ci ritiriamo nelle paludi a lavorare a registrazioni, artwork, festival, tour, fiori, animali, eccetera… Non ce lo fa fare nessuno. Niente di quello che facciamo arriva da ordini superiori, almeno per quel che ne sappiamo. Poi chissà, invece magari fa tutto parte di un progetto cosmico, a volte ci sentiamo così… anche se il fisico è stanco c’è qualcosa che ti spinge sempre avanti. Il viaggiatore crea e si ritrova a far parte di connessioni fra persone di tutti i tipi e in tutti i luoghi, e non si parla certo di connessioni virtuali, ma di vere linee spaziali e telepatiche che generano gioia e soddisfazione diffusa, al di là dei limiti dell’ego. Il viaggio è ambito di conoscenza dell’ignoto attraverso la ricerca e forse la scoperta… senza “rivelazioni” non si può avere fantasia espressiva.

Avete collaborato con musicisti incredibili (comprese delle formazioni ibride): Bill Nace, Chris Corsano, Mette Rasmussen, Chris Spencer Yeh, la lista è lunga. Non pretendo che mi raccontiate cosa avete tratto da ognuno di loro, ma mi potete dire cosa si prova e cosa si guadagna in termini di esperienza a mettere su queste relazioni artistiche?

Si tratta sempre di uno scambio. Quello che si guadagna è proporzionale a quello che si dà all’altro, altrimenti non si tratta di una collaborazione. Le possibili combinazioni sonore sono potenzialmente infinite, e il fatto di suonare con tanti musicisti diversi contribuisce alla costruzione di nuovi codici, che sfociano in quei tipi di musica che consideri giustamente poco incasellabili. E ci sono poi tanti risvolti a questi incontri: può capitare che si suoni insieme solo una volta, oppure che ci si re-incontri in momenti diversi nel corso degli anni, oppure che si stabilisca una relazione duratura e continua. In quel caso iniziano altri tipi di dinamiche, più affini a quella di una “band” che a quelle di viaggiatori che si incrociano e si mescolano. Il discorso è lungo e complesso, magari lo continueremo in un’altra occasione…

foto di Peter Gannushkin

In quest’ultimo periodo avete intrecciato un rapporto con Riccardo Sinigaglia (Futuro Antico, The Doubling Riders, Correnti Magnetiche) e poi proprio con Gaetano Liguori. I loro sono due modi diversi di pensare l’improvvisazione…

Sì, Riccardo e Gaetano vengono ovviamente da esperienze e percorsi diversi… quello che ci ha inizialmente accomunati a loro in entrambi i casi è stata un’idea di Davide Domenichini (della Black Sweat Records), che con entrambi ci ha fatto incontrare per la prima volta allo studio Il Guscio di Milano, in due momenti diversi.

Con Riccardo stiamo collaborando ormai da circa un paio d’anni, abbiamo registrato diverse sessions insieme ed abbiamo capito che la cosa che funziona meglio in questo trio è un certo tipo di improvvisazione elettro-acustica da tappeto che è un po’ una continuazione di progetti come Neokarma o Golden Jooklo Age per noi, e Futuro Antico per lui… Ci troviamo molto bene insieme anche sul piano umano, è una relazione molto semplice e genuina in cui ci si può parlare chiaramente esprimendo ognuno il proprio parere senza temere rimorsi o rancori, stiamo organizzando un tour europeo in trio per settembre che ci porterà fino al Meakusma Festival in Belgio…

Abbiamo conosciuto Gaetano per la prima volta a febbraio 2017, sempre al Guscio. Siamo arrivati, ci siamo presentati, e senza tanti discorsi abbiamo iniziato a suonare e registrare, come d’altronde succede la gran parte delle volte tra gente abituata a improvvisare. Il primo incontro è sempre speciale, ancora non ci si conosce e quindi è tutta una novità. Con Gaetano è stato chiaro fin dall’inizio che ci saremmo basati più sulla formazione “classica” piano, batteria e sax, senza effetti, senza filtri, nuda e cruda. Inutile dire che Gaetano è davvero un grande pianista, il cui stile molto ritmico bene si incastra alla batteria di David.

Cosa avete preparato per lo Zuma Festival con lui?

Il trio con Gaetano allo Zuma sarà il nostro secondo incontro, per cui staremo a vedere cosa succederà, l’unica cosa certa è che ci saranno un pianoforte, una batteria, un sax. Dall’incontro al Guscio abbiamo sentito appunto che le dinamiche molto agili e gli incastri ritmici che escono da questo trio sono senz’altro molto interessanti, così come gli intrecci melodici e le dissonanze armoniche. Vedremo poi cosa ci suggeriranno le vibrazione e le sonorità del luogo, visto che nell’improvvisazione è abbastanza impossibile estraniarsi da questi elementi imprescindibili.