GABRIELE MITELLI, O.N.G. Crash

Una selva: è qui che entriamo subito ascoltando di Crash, il nuovo disco del polistrumentista bresciano Gabriele Mitelli (cornetta, flicorno, tromba preparata, elettronica, percussioni, voce) col suo quartetto O.N.G, nel quale è affiancato da Enrico Terragnoli (chitarra elettrica e tastiera), Gabrio Baldacci (chitarra baritono) e Cristiano Calcagnile (percussioni, batteria, oggetti).

Tre lunghe suite, ognuna delle quali è divisa in tre movimenti, tra composizioni originali e rivisitazioni eclettiche. Un clima circospetto e tropicale (“Another Missarà”), voci irriconoscibili che parlano una lingua segreta, gli strumenti rispondo con i loro enigmi, un sabba di suoni selvatici e futuribili esplode in un fertile caos che ricorda i fantasmi di David Byrne e Brian Eno (My Life In The Bush Of Ghosts, anno di grazia 1981 ) oppure la psichedelia da giungla degli O’ Rang (la sezione ritmica dei Talk Talk, Paul Webb e Lee Harris, autori di un paio di dischi favolosi, Herd Of Instinct e Fields And Waves, tra 1994 e 1996), poi dopo nemmeno tre minuti ci ritroviamo dalle parti del Miles Davis altezza On The Corner ibridato con un post-rock solido (ottimo il lavoro della chitarra baritono), poi ancora fiorisce tutto un febbrile caos elettrico dove la batteria di Calcagnile stabilisce liberissime coordinate, fino a quando non parte un tema di tromba che sa di Africa e di Fela (Tuco). Chiude questa prima suite “Frequency”, una cover lirica e  distesa di “Lanquidity” del maestro dei mondi possibili ed impossibili Herman Blount, al secolo Sun Ra. Si parte decisamente col piede giusto. Del resto Mitelli era un osservato speciale già dall’uscita dell’anno scorso del disco Water Stress a nome Groove & Move con il re Mida del vibrafono Pasquale Mirra. Il livello si mantiene buonissimo con l’inizio di “Rash”, la seconda lunga suite (quasi ventidue minuti): “Karma”, ed è una festosa sarabanda free che apre il sipario con obbligati ripidi e appuntiti per dopo gettarsi a capofitto in una fuga swingante, dove le chitarre fungono da elemento felicemente perturbante, poi si torna al tema principale, incalzante e cantabile come certo jazz nordico (Fire Orchestra?). Ottima la scelta di fare a meno del basso, perfettamente sostituito dalla chitarra baritono e da sottolineare ancora una volta la grande bravura di Cristiano Calcagnile, un musicista sempre a suo agio in ogni contesto e capace di dare un tocco personale a ogni materiale (abbiamo apprezzato il suo progetto Multikulti dedicato a Don Cherry e non vediamo l’ora di poter ascoltare il frutto delle recenti registrazioni con Pasquale Mirra e lo stesso Mitelli, ai quali si sono uniti anche Jeff Parker e Rob Mazurek). Dopo tre minuti ci troviamo persi e contenti di esserlo in una no man’s land dove la chitarra e l’elettronica graffiano manco stessimo ascoltando un disco dei Sightings o dei Wolf Eyes (nobilitati in tempi non sospetti da un gigante come Anthony Braxton, che collaborò con loro nel disco Black Vomit del 2006). Si torna almeno un poco a casa con la tromba di Mitelli, ma il clima resta straniante, c’è una sete costante, un’urgenza che muove ogni momento di questo lavoro: i quattro musicisti non concedono un attimo di tregua, Calcagnile si muove come un equilibrista sul filo del caos mentre attorno le chitarre ruggiscono come leoni in gabbia e i fiati intervengono a domare la belva. Spesso espansi e mutanti, capaci di un fraseggio fluido e travolgente e con una voce limpida, seppure senza dubbio debitrice dei frutti della ricerca di Mazurek, gli ottoni del leader aggiungono confusione alla confusione (Confusion is Sex d’altra parte, dicevano i Sonic Youth, e avevano ragione), ma non c’è un solo passaggio gratuito in questo calibratissimo delirio, appassionato e passionale, dove in realtà una rigorosa logica compositiva, un grande senso della misura e un ottimo senso dello spazio e del tempo dimostrano l’assoluta maturità degli interpreti coinvolti, capaci di spaziare da momenti di jam rock dove certi Grateful Dead non sono nemmeno troppo lontani a esplorazioni lunari memori delle formazioni allargate di Mazurek. La seconda suite si chiude con una cover di “A Tratti” dei CSI, con Mitelli che si cimenta alla voce, non così pregnante per chi scrive, ma sono peccati del tutto veniali, dato che anche la terza e conclusiva suite, “Take Off”, conferma quanto di ottimo abbiamo ascoltato in precedenza: temi ariosi e innodici che sanno di Hugh Masekela come di Jaga Jazzist, le chitarre capaci di non indulgere mai nella fusion, efficaci e virtuose ma mai ginniche, espressive e poliformi (Baldacci ha quasi la furia di un bassista postcore sulla sua chitarra baritono, mentre Terragnoli è più sottile e psichico, alla stregua di Henry Kaiser). Ecco, proprio Kaiser ci fa venire in mente un progetto a cui potremmo accostare, solo per dare un riferimento a chi legge, sia chiaro, questo lavoro: Yo Miles!, che vedeva proprio il chitarrista di Oakland assieme – oltre a mille altri – al grande Wadada Leo Smith, al quale Mitelli può senza esagerare essere accostato, perché compositore e musicista immerso nel suono e dotato di una profonda, intima e personale visione (la prima volta che lo vedemmo live in solo restammo abbagliati, uno splendido set dove veniva usato di tutto, dalla macchina da scrivere all’Arturia, e la tromba era solo una delle tante possibili voci). Intorno al minuto 9, in questa traccia conclusiva, siamo di nuovo finiti chissà dove: in un posto di frontiera tra AMM e Tortoise, in un luogo dove frattaglie digitali e l’idea espansa che continua a rendere il jazz una delle musiche più interessanti dell’attualità si incontrano per dare vita a nuove forme. Chiude questo viaggio il jazz rock trascinante e solenne di “Old Man”. E dopo una tale ridda di voci, restano solo la tromba e landscapes elettronici, come in una ipotetica colonna sonora di un “Gravity” meno hollywoodiano a lasciare la porta aperta verso il prossimo passo: ancora una volta, space is the place. Gabriele Mitelli è un musicista da seguire ad orecchie completamente spalancate.