FU MANCHU, Clone Of The Universe

I Fu Manchu. A questo punto potrei già smettere di scrivere senza problemi, tanto il nome parla da sé.
Clone Of The Universe. Qui mi tocca spendere qualche parola in più, quindi vi dico: i Fu Manchu. Torniamo dunque al punto di partenza, e potremmo continuare così all’infinito.

Se in ambito stoner alcuni dei nomi più importanti a ogni nuova uscita devono dimostrare di non aver ciccato, altri, invece, sono una certezza. I Fu Manchu lo sono. Il perché è facilmente spiegato: non si sono mai rotti le palle di fare ciò che fanno. Tuttavia, il loro sound è maturato nel corso degli anni e, senza mai snaturarsi, è passato da composizioni più semplici e massicce, in cui la passione per le spiagge californiane, lo skate e le Chevy El Camino si faceva fortemente sentire, ad influenze tipiche dell’altra faccia della California, psichedelia rarefatta e maggiore complessità strutturale, senza mai abbandonare i caratteristici riff monolitici e super fuzzy.

Pionieri di un genere che oggi è sicuramente più popolare di ieri, e forse anche più popolare che mai, i Fu Manchu sono un punto di riferimento per lo stoner rock. Capelloni fondamentalisti del wah, freakkettoni della scala pentatonica, amanti di campanacci e maracas, nati come Virulence nella scena hardcore-punk e divenuti nel giro di pochi anni la band che oggi conosciamo bene, i Fu Manchu sono così da sempre e il loro sound è inconfondibile.
Vero è che non tutta la loro discografia, oggi giunta al dodicesimo album, è di un certo livello; ma cazzo, anche ad AC/DC e Slayer sono capitati dei cali di tensione. Il problema, ad ogni modo, non riguarda Clone Of The Universe, ed è di questo disco che dobbiamo parlare, giusto?!?

Dunque, il titolo sembra riassumere in qualche modo la caratteristica dell’album, che è quella di ‘clonare’ alcune fasi attraversate dalla band. Una sorta di campionario Fu Manchu. Abbiamo: riffoni alla Action Is Go/King Of The Road in “Intelligent Worship”, le schitarrate e i ritmi up-tempo di “Don’t Panic” che potrebbero non sfigurare nel repertorio dei Virulence, le atmosfere lisergiche di “Slower Than Light” già sniffate in non ricordo quale traccia di Start The Machine, la psycho-delia delle lunghe parti strumentali contenute ne “Il Mostro Atomico” (gran titolo, o no?!), che, oltre a vedere la partecipazione di Alex Lifeson (Rush), riprende quanto già ascoltato in Gigantoid, mentre i riff della title-track, lasciando trasparire una simpatia per gli Helmet, spingono la band un passo avanti e senza intoppi lungo un cammino stilistico che comunque non è una maratona.

Non so se i Fu-Manchu potranno elencare quest’ultimo album tra i migliori della loro carriera recente. Essendo leggermente più difficile rispetto ai precedenti lavori, potrebbe richiedere qualche ascolto extra per splendere della propria luce, però, si mostrano sin da subito almeno 3 o 4 pezzi da incorniciare, che su una scaletta di 7 tracce equivale al 50% circa. Questa percentuale potrebbe crescere a seconda dei gusti personali: per i fan(atici) di In Search Of, difficilmente si riuscirà ad andare oltre. Invece, per coloro che hanno apprezzato Gigantoid, Clone Of The Universe sarà definitivamente un bel disco. Io, che non ancora riesco a riporre sullo scaffale The Action Is Go, King Of The Road e California Crossing, vi confido che al momento, secondo me, Clone Of The Universe è gulp!, inteso in senso lato, ovviamente.