Francesco Giannico: la questione politica dell’ascolto

Musicista attento e sensibile, orecchio spalancato ai suoni e ai sensi del mondo. Il suo ultimo lavoro, Misplaced, non inventa nuove formule ma colpisce per l’attenzione, il tocco, il calore che emana. Ci sembrava il caso di approfondire.

Voglio iniziare questa conversazione con una poesia di Octavio Paz che ha a che fare col titolo del tuo ultimo disco, Misplaced, e chiederti cosa ti fa venire in mente, come ti risuona.

Reversibile

Nello spazio
sto
dentro di me
lo spazio
fuori di me
lo spazio
in nessun luogo
sto
fuori di me
nello spazio
fuori di sé
in nessun luogo
sto
nello spazio
eccetera.

Francesco Giannico: Cosa posso dire? Non la conoscevo ma devo dire che me la sento dipinta addosso; il concetto di evanescenza, anche corporea, m’intriga moltissimo, soprattutto ora, dopo aver proceduto per anni nella produzione musicale con un approccio che potrei definire molto materico e legato profondamente alla fisiologia del paesaggio circostante. Probabilmente nelle ultime produzioni musicali è come se avessi smontato un po’ questa impalcatura rigida e teoretica che ha pervaso tutto questo pensiero (o ossessione) provando a ridare un senso più posato, più leggero anche se non nel senso di meno impegnato.

Quali suoni e strumenti hai utilizzato nel disco? Con che modalità e ritmo procedi? Si tratta di un processo veloce o lento? Lunghe meditazioni su dove andare o illuminazioni che si succedono rapide?

Ho utilizzato prevalentemente pianoforte, chitarra, synth e una rielaborazione “ragionata” di alcuni field recordings che avevo. Il ritmo delle cose che faccio quando creo musica è estremamente variabile, a volte mi viene all’improvviso un’idea e procedo come un razzo ma di solito sono molto lento nel finalizzare il processo perché rimetto tutto in discussione continuamente e riascolto il brano fino alla nausea; quando smetto di ascoltarlo tendo a distaccarmene e a cominciare altre cose; passato un po’ di tempo ritorno su quello che avevo fatto e cerco di chiudere il cerchio. Non è una regola ma ho notato che è un modus operandi che ritorna abbastanza frequentemente. Tornando alla tua domanda direi che c’è certamente un’illuminazione iniziale che poi viene lasciata un po’ decantare prima che prenda forma definitivamente.

Ti elenco qualche nome che mi è venuto in mente all’ascolto: Brian Eno, Labradford, Greg Haines, Machinefabriek, Stars Of The Lid, il catalogo Denovali. Dimmi un po’.

Sono chiaramente tutti mostri sacri di un certo genere musicale al quale mi sento molto vicino e naturalmente non posso che essere contento che ti vengano in mente questi riferimenti ascoltando il mio disco. Di ognuno di loro adoro qualcosa: di Brian Eno la versatilità e la capacità di produrre cose molto diverse e in settori altrettanto diversi, dei Labradford la psichedelia cervellotica e talvolta apocalittica, di Greg Haines il suo lirismo contemporaneo o la fragilità discreta dei Machinefabriek, l’epica struggente e intimista dei Stars Od The Lid, del catalogo Denovali potremmo stare a parlarne per giorni.

Ricordo un’intervista anni fa su Blow Up ad un musicista italiano la cui arte a dire il vero mi dice poco ma questa risposta, pur didascalica se vogliamo, mi è rimasta in testa: ” Cosa stai ascoltando? Il rumore della pioggia”. Visto il tuo interesse ed il tuo lavoro con i paesaggi sonori, è inevitabile chiederlo anche a te.

Si tratta di una domanda difficile e il mio istinto da nerd comincia a sudare per prendere le contromisure. Scherzi a parte, bisognerebbe contestualizzare il momento e il luogo dell’ascolto. Ma visto il tono un po’ evanescente della risposta nell’intervista che mi hai citato, probabilmente volutamente, provo a risponderti a modo mio. Sto provando ad ascoltare sul serio le persone, so che potrebbe far sorridere questa affermazione ma per tanto tempo tutto il lavoro che ho fatto è stato svolto con un piglio forse troppo analitico e legato ad una visione d’insieme del concetto di paesaggio sonoro che non teneva conto di una cosa fondamentale, i rapporti che le persone hanno con il mondo circostante e il conseguente effetto antropico su tutto quello che ascoltiamo. Per questo motivo sono un po’ stufo di registrare suoni persino in posti bellissimi se non c’è dietro un progetto che tiene le fila di tutto; c’è in poche parole bisogno di sostanza, la tecnicalità dopo un po’ diventa una cosa fine a sé stessa. Da questo punto di vista credo che le pratiche d’ascolto come le soundwalk o simili debbano essere sempre fatte in gruppo per poi confrontarsi su quello che si è sentito e fare un bilancio o anche semplicemente per condividere un’impressione o un pomeriggio insieme. Non bisogna per forza fare un disco, il suono può legare le persone in molti modi.

Musicisti di riferimento in Italia e all’estero e collaborazioni, possibili ed impossibili?

Ci sono molti musicisti bravissimi in Italia, non posso dire con certezza che ve ne sia qualcuno che considero come un vero e proprio riferimento da un punto di vista musicale. Al momento sto ascoltando molto Martina Bertoni, trovo che lei sia davvero in gamba e con una concezione internazionale rispetto alla produzione musicale. Mentre adoro da un punto di vista professionale quello che fa Bruno Dorella pur facendo cose completamente diverse chiaramente. Sulle collaborazioni impossibili qualcosa già c’è stato in passato con Thollem Mc Donas ed Amy Denio, un disco uscito per la piccola label Oak Editions che gestivo all’epoca; un lavoraccio soprattutto in studio mettere qualcosa in piedi utilizzando 3 registri completamente diversi ma è stato appassionante. Al momento c’è qualcosa in cantiere con l’amico Anacleto Vitolo, un disco molto particolare.

Come stiamo a cultura dell’ascolto secondo te in Italia in generale e nel tuo Sud in particolare?

L’ascolto è una pratica strana, chi è appassionato di generi specifici o di pratiche di registrazione può commettere l’errore d’immaginare una dimensione dell’ascolto diversa da quella che pratichiamo abitualmente nella vita di tutti i giorni. Ma se c’è una cosa che può insegnarti una soundwalk è che l’ascolto è una pratica da attuare tra almeno due componenti, una sorgente che emette il suono e un elemento che lo riceve. Noi abbiamo la possibilità in quanto esseri senzienti di lavorare in entrambe le modalità e quindi di applicare un metodo di condivisione che accresce il livello esperienziale di ognuno di noi. L’ascolto in poche parole non è solamente un argomento per appassionati di field recordings ma è anche una questione politica, significa dar voce anche a tutto quello che è fuori da noi, emettendo e ricevendo allo stesso tempo. Nel Sud credo che il problema principale sia al momento il fatto di ritrovarci con tantissimi giovani menti che andando via mettono indirettamente in moto un meccanismo di conservazione della classe politica che rimane stantia, retrograda, spesso sfacciatamente ignorante. Non è sempre così sia chiaro, ma in generale la pratica del “non ascolto” è quella che meglio preserva questo genere di situazioni. Tutto questo ragionamento parte dal fatto che ho volutamente travisato la questione relativa alla “cultura dell’ascolto” della tua domanda ma è una forzatura che faccio spesso anche nei miei workshop per porre un tema importante, di rottura con la semplice (apparentemente) questione dell’ascolto del paesaggio sonoro e che ha talvolta, quasi sempre a dire il vero, connessioni e ripercussioni con il mondo del capitalismo, con il nostro stile di vita, con quello che siamo. Avere una buona cultura del suono oggi vuol dire comprendere anche i fenomeni politici e le ripercussioni del sistema di potere sulle nostre vite. Se fino a qualche anno fa il paradigma “noise vs capitalism” poteva apparire vincente nello spiegare il teorema della libertà attraverso l’espressività ribelle del noise oggi tutto questo non basta più perché bisogna anche considerare i fenomeni globali che hanno portato ad esempio le nostre metropoli a subire processi mostruosi di gentrificazione e industrializzazione tali da non permettere una vita acusticamente accettabile; non solo acusticamente evidentemente.

Progetti in cantiere?

Al momento sto lavorando ad una performance sonora e ad un’installazione che sono il risultato di una residenza artistica all’interno della città vecchia di Taranto svoltasi ad ottobre assieme all’amico musicista Anacleto Vitolo. Si tratta di un progetto (dal titolo etopèa) abbastanza articolato i cui esiti incuriosiscono me per primo. A dicembre dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) uscire inoltre un mio podcast su Audible che descrive alcune persone abbastanza popolari attraverso non solo le loro stesse parole ma anche e soprattutto attraverso i suoni dei luoghi in cui queste stesse persone sono cresciute o si sono in qualche modo formate. Un progetto molto grande che è durato due anni subendo diversi stop a causa del covid ma grazie al quale ho girato in lungo e in largo l’Italia potendo conoscere storie e persone meravigliose. Spero di potervi quanto prima dare ragguagli su tutto questo bel progetto dove ho potuto concentrare sia l’aspetto relativo al paesaggio sonoro che la produzione musicale realizzata a partire dalle stesse registrazioni.

Mi racconti il tuo primo ricordo musicale?

Uno dei miei primi ricordi musicali è legato all’auto del mio papà (che purtroppo ho perso a 9 anni) e alle cassette che giravano durante i viaggi, più o meno lunghi, per andare al mare o da qualche zio. Mi ricordo mentre ero spalmato sul sedile posteriore ad ascoltare qualche brano di John Lennon o Duran Duran, cassette molto varie evidentemente.