FATHER MURPHY, Federico Zanatta

Father Murphy, intervista

Se all’estero si citano Father Murphy e Zu, godono come ricci. Qui un po’ meno, perché sappiamo essere molto stronzi e miopi. Nonostante ciò la marcia del gruppo del Reverendo, di Chiara Lee e Vittorio Demarin è inarrestabile e tra i tanti live per il Mondo, hanno appena sfornato lo splendido Anyway, Your Children Will Deny It, recensito su questi schermi dal prode Maurizio Inchingoli. Assieme a lui si è provveduto all’intervista che trovate poco sotto. 

Mi brucio subito la credibilità con la classica domanda sul significato del titolo del disco, abbinandola però alla richiesta di tracciare le coordinate tematiche testuali e liriche di ogni pezzo. 

Federico Zanatta: Il titolo vuole essere uno sguardo verso un futuro prossimo, a cui ciascuno può attribuire una propria interpretazione, sia essa possibilista, realista, pessimista, antiutopista. È come dire: tanto lo rinnegheranno e a farlo saranno i vostri figli. Il pronome “lo” non è riferito a qualcosa in preciso. Ognuno può attribuirvi un significato diverso. Io, ad esempio, ho il mio e la Lee e Vittorio ne hanno di altri.

“How We Ended Up With Feelings Of Guilt”: ci liberiamo dell’altro, per isolarci, per non condividere. Lo buttiamo giù dalla collina e ascoltiamo i tonfi del corpo che cade. Lo ascoltiamo rotolare. L’altro non coincide con la sofferenza, anzi. È proprio l’altro che ci nega la possibilità di provare una sofferenza privata, unica.

“His Face Showed No Distortions”: da un punto di vista figurato, questo secondo movimento del disco riproduce l’attimo in cui ci chiniamo per guardare l’ultima volta cosa rimane di quanto o di chi ci siamo appena liberati. È uno sfogo inconsapevole, dovuto.

“It Is Funny, It Is Restful, Both Came Quickly”: la tensione che abbiamo accumulato esplode a pieni polmoni. Recriminiamo su situazioni passate, usando anche parole/sensazioni che non ci appartengono direttamente, ma che comunque non possiamo non sentire come nostre. Il male con la “m” minuscola, quello causato dall’uomo, senza tirare in ballo alcunché di più alto o basso. Persecuzioni, il degenarare della persecuzione in un qualcosa che non si può neanche più definire. Questo nei primi sette versi, almeno. Arriviamo quindi a dipingere scenari futuri di vendetta. Vendetta non nostra, ma più di un inevitabile fato. Quello che deve succedere. I persecutori impiccati ai pali della luce, in ogni strada, in ogni dove.

“Digging The Bottom Of The Hollow”: ritorniamo su quanto è appena successo, cercando però di trovare un significato più generale da cui ripartire, in una tipica situazione di routine di un qualsiasi rapporto interpersonale. Cerchi conforto tra le parole, non tenendo conto di cosa significhi un vero confronto reciproco.

“In Praise Of Our Doubts”: è un inno, un tentativo di imitare una cavalcata wagneriana: l’altro non c’è più, siamo del tutto isolati, ma sappiamo che non sarà per sempre, non è questo il fine. È un gonfiare le spalle e le guance, per sembrare  più grossi, più forti. Ma la convinzione gioca a nostro favore. È un’ammonizione, forse più vicina ad una minaccia. Per sé, quanto per chi incontreremo in futuro.

“In The Flood With The Flood”: analizziamo la situazione dal di fuori, vediamo quanto abbiamo dovuto fare/sacrificare per arrivare al punto in cui siamo. Abbiamo sacrificato qualcosa, qualcuno. Doveva andare così. Abbiamo scelto che fosse così. Ma ricordiamo a noi stessi che, se ci dovessimo dimenticare di quanto scelto ancor più di quanto fatto, dovremo assumercene tutte le responsabilità. Lasciamo (imperativo) che siano gli altri a dividersi, a dimenticare, ad avere rimpianti.

“Don’t Let Yourself Be Hurt This Time”: abbiamo forse raggiunto l’obiettivo. In una tale atmosfera, anche il pensare al riprodursi non avrebbe alcun senso.

Quanto successo ha come fine quello di evitare sentimenti non produttivi legati all’idea di fallimento. Non c’è spazio per i deboli. Possa questo dare sfogo ad un sincero fatalismo, anche a partire da una auto imposta spirale verso il basso. Nella parabola del nostro Padre Murphy, questo è il punto da cui ripartire.

Da Boring Machines all’americana Aagoo Records. Come mai? È scomodo chiedervi qualcosa del collettivo Madcap? 

Boring Machines e Aagoo Records hanno collaborato ottimamente per l’uscita degli ultimi due nostri lavori. Facciamo fatica a pensare a due etichette che meglio ci rappresentino. Per questo disco si è trattato quasi esclusivamente di un discorso di tempistica e logistica. I vari tour di presentazione dell’album stavano già iniziando a delinearsi e quindi avevamo bisogno di fissare una data precisa per l’uscita, sapendo che avremmo avuto bisogno di più supporto possibile, economico quanto logistico. Mentre Boring Machines aveva già un programma fitto di uscite, e quindi una possibilità limitata di investimento/tempo, Aagoo si è dichiarata pronta all’uscita solitaria. Se noti però, il disco in Italia lo si può trovare solo via Boring Machines (o in vinile dal mailorder di Avant! Records, altra gran bella realtà). E la promozione italiana l’abbiamo gestita noi direttamente, ma sempre con l’aiuto, il supporto e i consigli di Onga di Boring Machines. È un discorso di appartenenza: la nostra famiglia è composta da noi tre, e dalle persone a cui vogliamo bene, che sono poi quelle con cui lavoriamo. E i padrini son proprio Alec Dartley di Aagoo e Onga di Boring Machines. A onor del vero, a Onga ci riferiamo ancora come al “padrone”. Purtroppo la mentalità da “nordest produttivo” è difficile da estirpare.

Madcap Collective è il collettivo di cui facciamo orgogliosamente parte. Lo scriviamo in ogni disco. Certo, il nostro apporto al Collettivo è calato, ma possiamo dirti che negli ultimi mesi sono usciti un bellissimo ep di Andrea Rottin (Dwars Sessions), una raccolta di racconti di Luca Dipierro (Biscotti Neri), l’ennesima ristampa di You A Lie dei Comaneci. A breve parte poi una rassegna che Madcap curerà in collaborazione con il Comune di Venezia, con performance varie, tra cui Uochi Toki, New Candys, Mojomatics e altri.

I Father Murphy Sanno Ascoltare

Tornando al nuovo disco, il “passaggio” di etichetta ha quindi inciso sulla sua realizzazione e su come è venuto fuori? Come funzionava e funziona la composizione in casa Father Murphy? I “dintorni”, se non il cuore, dell’inferno paiono tutti vostri ormai.

Come dicevamo prima, il passaggio di etichetta in realtà non c’è stato. Invece, e fondamentale, è stato il radicale cambiamento di metodo di lavoro. Mentre fino al precedente ep abbiamo sempre lavorato sui pezzi, li abbiamo suonati dal vivo e quindi registrati, con “Anyway…” il metodo si è capovolto. Abbiamo fatto lunghe chiaccherate in merito al disco nella sua interezza, dividendolo quindi in 8 movimenti, tutto questo senza mai suonare alcunché, descrivendo le atmosfere necessarie. Le registrazioni si sono quindi succedute, a volte coincidendo con la scrittura stessa del disco. Penso ci siano solo due momenti “live” nell’album, per il resto abbiamo registrato tutte le tracce in separata sede. Poi è toccato a Greg Saunier il lavoro di finitura. Gli abbiamo mandato un pre-mix, dandogli comunque carta bianca. Ci abbiamo appena suonato assieme la scorsa settimana a Manhattan, col suo progetto Le Bonhomme, e sembra aver apprezzato la resa live del disco. Ha riso quando gli abbiamo detto che, ricevuto il suo mix, abbiamo iniziato a studiare i pezzi per poi riproporli dal vivo. Invece, quanto stiamo cercando di delineare musicalmente ha a che vedere con situazioni il più possibile legate all’esperienza umana. A come ci relazioniamo con quello che siamo, con il nostro invecchiare, con più consapevolezza, senza porci troppe domande a cui non poter dare risposte, senza soluzioni totalizzanti, ma con un tentativo di seguire un percorso sincero, nostro. Il finto buonismo non serve a nulla. Tutto il senso di colpa accumulato nei primi anni della nostra vita ha avuto come strascico positivo quello di renderci molto molto critici nei nostri confronti, quanto di dare la massima importanza al rispetto dell’altro. Ma per fare questo devi prima rispettare te stesso, non mentirti, scendere dentro di te, scendere giù. Come dicevamo prima, una questione personale, non ci sono risposte a domande piu generali.

Dal punto di vista dell’evoluzione dei Father Murphy in che modo si può inquadrare Anyway, Your Children Will Deny It? Il senso di oppressione e il respiro mantrico sembrano cresciuti ancora, come fosse un vero e proprio rituale.

Il nuovo album vede il progetto Father Murphy invecchiare con noi, forse diventare più maturo, assumere più autorevolezza. Negli ultimi tre anni abbiamo fatto più o meno 300 concerti, e oltre all’esperienza squisitameente professionale, c’è anche quella del crescere assieme, di dover imparare a condividere gli spazi e i silenzi. Il rituale a cui accenni è spinto all’estremo, forse, rispetto al passato, ma è un passaggio del tutto naturale. Ci rispecchia, è un po quello che cerchiamo nella musica che ascoltiamo.

Avete pezzi o momenti preferiti del disco? Io adoro “In The Flood With The Flood”  

Tendiamo a considerare l’album come un unicum, quindi facciamo fatica a dirti uno o l’altro. Forse però proprio “In The Flood With The Flood” ci è particolarmente cara. Il testo è del californiano Vinh Ngo. Mesi prima che ci mettessimo a lavorare sul disco, Vinh, che cura tutte le nostre grafiche dal 2006, ci aveva mandato un suo lungo testo via lettera. Lo facciamo spesso, ci divertiamo a rispedirci lettere di continuo utilizzando finti cut up presi dalle lettere dell’altro. Questo testo è rimasto in un cassetto per un po’, l’ho riletto, per pura fatalità, mentre ascoltavo un demo vecchio in cui la voce era rappresentata esclusivamente da suoni gutturali e, leggendolo, ho scelto le frasi che descrivevano perfettamente l’idea che doveva comunicare. Metricamente penso sia uno dei testi che scorre meglio.

La dimensione live vi si addice parecchio. Vi ho visto già un paio di volte a Bologna, ed ho potuto apprezzarvi alla grande. Quanto c’era di studiato, e quanto d’improvvisato in quella precisa situazione? E in generale?

Intanto grazie. Il live rende, o deve rendere, quello che noi siamo, quello che sappiamo fare meglio. Di improvvisato ci sono solo gli “spazi” tra un movimento e l’altro, l’aggiustarci uno con l’altro. I silenzi, o i momenti di tensione cambiano da data a data, ma tutto il resto è scritto.
A Bologna poi siamo sempre felici di suonare e Giovanni Gandolfi e i ragazzi del LoComotiv ci hanno sempre aiutato e supportato, sin dall’inizio, oltre al fatto che hanno saputo creare una gran bella realtà.

È stato strano vedervi di supporto a tUnE yArDs. Ho dovuto fare uno sforzo non indifferente per adattarmi al cambio di passo, visto che avevate chiuso il set con quella tempesta noise accompagnata dalle campane di Chiara Lee. E al proposito, ci sono gruppi con cui avete suonato che, conoscendoli, vi hanno conquistato? O anche il contrario.

Suonare con tUnE yArDs è stato divertentissimo. Atmosfere completamente diverse, una ragazza a Roma si è messa a urlare che le facevamo sanguinare le orecchie. Una signora a Torino mi ha chiesto per quale motivo avesse dovuto sorbirsi una ondata di non-speranza. Le ho risposto che forse aveva voglia di essere triste lei, quella sera, perché di speranza nella nostra musica ce n’è sempre, almeno un po’. Se fossimo senza speranza, non faremmo quello che stiamo facendo. Devo poi confessarti che siamo stati finora molto fortunati negli incontri con altre band. Mentre scrivo Jamie e Angela degli Xiu Xiu stanno facendo soundcheck, li guardo, e vedo per prima cosa adesso due amici, poi due professionisti/artisti di cui adoriamo la musica. Idem con Evangelista, Sic Alps, Gowns, Deerhoof, The Ex, Thulebasen, Les Rhinoceros e adesso appunto Xiu Xiu e Dirty Beaches. Tutte le band con cui abbiam fatto tour ci hanno sempre lasciato moltissimo, sia dal punto di vista professionale, che da quello piu squisitamente umano.

Band che non ci hanno conquistato? Tante! La lista potrebbe essere davvero troppo lunga!

Come vedete la situazione dei gruppi in Italia? Ci sono realtà che apprezzate in maniera particolare?

Anche qui, lista troppo lunga!
Ci sono band, soprattutto quelle che stanno facendo un loro percorso personale tanto in Italia quanto all’estero, che stimiamo enormemente! Penso a Movie Star Junkies, How Much Wood Would A Woodchuck Chuck If A Woodchuck Could Chuck Wood, Jealousy Party, Hiroshima Rocks Around, Above The Tree. Boring Machines sta facendo delle gran uscite, come Be My Delay e Heroin In Tahiti, ma poi ci sono In Zaire, Ovo, i vari progetti Madcap, Andrea Belfi. La lista sarebbe, come dicevo, davvero lunga.

Mi piacerebbe sapere cosa ascoltate in questo periodo, se avete dei dischi che consumate nei tour o per conto vostro.

Ultimamente stiamo consumando l’ultimo dei Sic Alps e dei Movie Star Junkies: che dischi! Tra le ultime scoperte, band con cui abbiamo suonato, i Neptune di Boston, i canadesi Timber Timbre, i francesi Le Singe Blanc, i russi Asian Women On The Telephone e poi il pianista americano Thollem McDonas. Gran disco anche quello di Luca Venitucci uscito per gli amici (e nostri idoli personali) della Brigadisco Records. Qui negli Stati Uniti ci stiamo lanciando in lunghi ascolti di una radio via satellite, Lithium, veramente terribile! Quante brutte band nate con e dal grunge.

Chiara Lee Freddie Lee Luca De Marin

Via con la domanda scomoda: dato che stampa e pubblico estero vi adorano, cosa pensate della situazione italiana? Avete delle storie particolari da raccontare?

Ti dico sinceramente che siamo felicissimi di come è stato accolto il nuovo disco in Italia. Non ce l’aspettavamo, non così almeno. Storie particolari? Ce ne sono tante. Forse vado fuori tema, ma ti dico che siamo felicissimi per essere stati coinvolti in un progetto tutto italiano, a cura dei ragazzi di Nevrosi, che sarà un po’ uno sguardo sull’espressività di generazioni diverse di musici italiani. Davide Maldi, loro responsabile video, ci ha affidato una telecamera, che è con noi in tour da febbraio, con cui riprendere qualsiasi cosa possa avere a che fare con noi, con il nostro immaginario, con le band che troviamo, con cui suoniamo, con le persone che ci ospitano, che ci aiutano, che ci supportano. Ci ha lusingato il fatto di essere coinvolti. E poi con loro abbiamo già collaborato per quell’esperienza stupenda che è stata Arca Puccini 2011 a Pistoia. Proprio in quella occasione abbiamo conosciuto Jealousy Party, a cui siamo adesso molto legati, e anche Simon Reynolds, che è proprio un bel tipo. Ci sentiamo spesso via mail, mi ha da poco confermato che ci verrà a sentire quando il tour con Xiu Xiu farà tappa a Los Angeles.

Dato che gli artwork dei vostri dischi sono sempre molto particolari… in copertina su Anyway, Your Children Will Deny It ci sono quei volti dai tratti somatici orientali che paiono testimoniare di vite passate. Da dove provengono e cosa “nasconde” il tutto? 

La copertina è stata pensata e realizzata sempre dal buon Vinh Ngo. Rappresenta un particolare di un tempio buddista vicino a San Josè, tempio a cui fa riferimento la famiglia di Vinh. Rappresenta il muro dei morti.
Quando Vinh ha sentito i primi demo del disco, la prima immagine a cui ha pensato è stata proprio quella di un tempio. Poi ha deciso di fotografare un particolare del proprio, di tempio. Devo dirti che impariamo sempre molto da lui: io, nel mio stupido essere scaramantico, e purtroppo a volte bigotto, ho subito pensato potesse sembrare un’offesa o una mancanza di rispetto nei confronti della sua famiglia. Lui invece la concepisce come un fortificarne la memoria. E poi mi ha detto che spera che l’effetto sia contrario a quanto riportato dal titolo, e che, quantomeno i suoi figli, non rinneghino mai quanto è successo e stato fatto prima di loro, siano cose buone o cose cattive.