FABRIZIO MODONESE PALUMBO, Doropea

Doropea

Comincerò così, con una delle mia solite storielle. Anni fa, quando giravo per forum in cerca di qualunque informazione utile, capitai in una sorta di sondaggio (più giochino, a dire il vero) nel quale si discuteva su quale fosse stata la città più innovativa per la storia della musica. Ripeto, era un giochino, ma tra i molti che misero città inglesi (soprattutto Sheffield), scrissi, accompagnato dal mio fare sempre timoroso, il nome di Torino. Non fui deriso, ma si scatenarono tuoni e fulmini. Si aprì un’interessante discussione, che però abbandonai dopo due o tre messaggi, questioni di timidezza. Già, come sono dal vivo, ahimè, lo sono anche in rete. Nel botta e risposta, a chi inserì i Cabaret Voltaire risposi citando i DsorDNE, e a coloro che scrissero uno dei milioni di gruppi punk britannici, replicai coi Nerorgasmo. Se per sfortuna qualcuno avesse nominato i Nocturnal Emissions, lì sì che sarei stato in difficoltà, nonostante probabilmente CCC CNC NCN non sarebbe stata male come risposta.

Fabrizio Modonese Palumbo è uno di quei punti di riferimento (non solo per i torinesi) che ha contribuito (già coi Larsen) a confermare il carattere innovativo dello scenario sabaudo. Oggi si presenta con Doropea, cioè il caloroso elogio e omaggio alla sua città. Premesso: mentre scrivo (quasi) a ruota libera, viaggiano rigorosamente in cuffia i trenta minuti della cassetta (150 copie, Old Bicycle Records). Si sa, per Torino questo è periodo di ostensione e infatti le due suite risuonano (meglio appaiono) malinconiche, distanti ed elettricamente sind(r)oneggianti nel lento e grigio incedere, intervallate da brusche e cicliche intermittenze di natura noise-industrial. Non so se è per effetto di Doropea, non credo, ma i torinesi li vedrò sempre in questa maniera apparente. Sembrano tristi, silenziosi quando camminano per le vie del centro, hanno quell’aria regale che li porta per una specie di imprinting nel dna a tenere a distanza gli sconosciuti, fanno finta di non interessarsi alle persone mentre in realtà studiano e scansionano poco per volta il cervello, selezionano come le anziane signore che incontri dal medico di fiducia, in principio un saluto appena accennato, poi, frantumata la confidenza, raccontano vita morte e miracoli, ed è sempre un bel sentire. Fingono perfino nella pigrizia (“Bogia nen”), non fidatevi. L’aspetto, infine, è quello di una sorta di un triste Macario che indossa un camice da serioso dottore, prestato per l’occasione da Cesare Lombroso.

Non conosco di persona il polistrumentista, ma forse (spero) gradirà la lettura di questo scritto, articolato come personale visione della città e di chi la vive. Mi perdonerà quindi se ho abusato di questo spazio, ma se l’intenzione di Modonese Palumbo è raccontare Torino e i torinesi, allora significa che ho capito bene il concept, d’altronde chi avrebbe potuto farlo, se non un altro torinese come il sottoscritto, che ci risiede dall’età di tre anni, e che (probabilmente) mai andrà via? Non so, forse la descrizione non risponde al vero e magari sto soltanto mostrando tutte le varie sfumature o specchi di me stesso. Di città ne ho girate, tolte le Fiandre e qualche zona della Normandia, altri posti da usare come rifugio non ne conosco, quindi, per ora, mi tengo stretto il gelo di gennaio, la nebbia quando decide di salire e il rumore dello scorrere dei fiumi.