Fabrizio Elvetico (Illàchime Quartet): improvvisare, oggi, a Napoli

Questo quartetto allargato (no, non è un ossimoro, e va benissimo così) sta svolgendo un importante lavoro, che magari non sarà noto ai più, ma che a chi è nel mondo dell’improvvisazione dirà molte cose. Napoli è da sempre un coacervo di idee e scambi culturali a dir poco peculiari, per fortuna anche nel campo della sperimentazione, e gli Illàchime Quartet fanno capo a quell’idea di pensare ed eseguire musiche poco convenzionali coinvolgendo realtà a loro affini. Abbiamo intervistato Fabrizio Elvetico, in occasione della recente uscita di Soundtrack For Parties On The Edge Of The Void.

Da quali premesse nasce questo ensemble che possiamo definire allargato? Tanti sono i musicisti coinvolti… anche il nome che avete scelto è particolare, no?

Fabrizio Elvetico: La natura collaborativa di Illàchime esiste fin dal primo giorno, quando eravamo in due e non volevamo limitarci a surrogare con l’elettronica musicisti in carne e ossa. Poi si è sviluppata coinvolgendo anche figure internazionali di prestigio. Infine è approdata qui, con un lavoro fatto per metà di pezzi preesistenti ma che volevano essere rielaborati scrivendo delle partiture per sezioni di fiati. Ovviamente fu necessario porsi delle domande: di quanti e quali strumenti si sarebbe potuto disporre? E che grado di impegno si sarebbe potuto chiedere, posto che ci si sarebbe dovuti “accontentare” in ragione della natura di autoproduzione del progetto? Perciò, prima di poter scrivere le parti abbiamo sondato questa disponibilità, e la risposta, onestamente, è stata davvero sorprendente: ben diciannove musicisti – ma anche una decina di altri collaboratori – sono stati felici di esserci, e molti di loro si sono detti arricchiti dall’esperienza. In questo, secondo me, ha avuto una parte determinante anche l’aver registrato all’Asilo – coproduttore del progetto – che, con la sua natura di luogo di incontro e di coworking solidale, ha costituito un ambiente safe, un incoraggiante valore aggiunto che ne ha reso possibile la realizzazione.
Quanto al nome, Illàchime viene da “in lacrime” che, con due lettere cambiate, diventa il-la-chi-me, due articoli e due pronomi. La cosa ha tra l’altro ispirato Luca Serafino per la realizzazione della serigrafia del cd: così magari c’è un elemento in più per spiegarselo.

Avete pubblicato pochi dischi, tutti piuttosto diversi tra loro. In Sales, ad esempio, avete raccolto una serie di remix, mentre quest’ultimo è una vera e propria prova free-form, non a caso sul sito della band vi definite “avant jazz, free form, abstract punk”.

I nostri pezzi sono da sempre strutturati utilizzando delle forme aperte che si prestano a un buon numero di varianti locali, ma anche globali. Il nostro modo di praticare l’improvvisazione può andare da un ambito più convenzionale come l’articolazione melodica su sequenze armoniche (rara) fino a un’indagine combinatoria sulle possibili relazioni tra fenomeni, che molto spesso sono materiali incrostati di identità sonora, ma per i quali si sperimenta una ricontestualizzazione. I pezzi sono spesso – ma non sempre – organizzati per sezioni il cui avvicendamento avviene seguendo segnali di vario tipo (musicali e non), ma ciascuna di esse rispetta una sua articolazione variabile e soggetta al momento e alla imprevedibile interazione tra i musicisti. Detto questo, mentre i pezzi della parte B di Soundtrack for Parties on the Edge of the Void rientrano a pieno titolo in questa pratica, quelli della parte A ne hanno rappresentato una deviazione, in ragione della scrittura delle sezioni di fiati: in questo caso ci interessava esplorare ambiti stilistici precisi, provando a inserire delle anomalie direttamente nella scrittura delle partiture. Il tutto in una prospettiva simbolica secondo cui i cascami di musica d’altri tempi – in particolare quella legata al cinema italiano degli anni Sesssanta e Settanta – non attraversa lo spazio dell’ascolto per abilitare nostalgie o revivalismi o, peggio, riproduzioni in vitro di modalità ritenute insuperate, ma interagisce con la globalità dell’operazione: quale può essere il senso del fare musica in un mondo alla deriva che, tra violenze di ogni genere, devastazione ambientale, economie predatorie e razzismo dilagante, sembra non avere speranza? Non è solo il farsi colonna sonora per uno stridente party perenne sull’orlo del precipizio modello Titanic, ma anche un invito all’incontro accogliente e festoso tra le persone, a una ricostruzione delle relazioni umane, bonificate dal veleno del capitalismo che, in questa fase, sembra essere l’unico, sensato obiettivo da perseguire. Ciò vale anche per lo specifico del fare musica, che a questo punto ne diventa uno degli strumenti possibili e che, per quanto mi riguarda, solo così riacquisisce la possibilità di essere controcultura. Rimanere ancora legati all’idea adorniana secondo cui basta essere radicale – che si faccia noise estremo o musica contemporanea o ricerca di laboratorio – per collocarsi e sentirsi in opposizione al mondo in cui ci troviamo, mi sembra fuori tempo massimo: di tutto questo rigore ormai il mondo, tecnicamente, se ne sbatte. Quando poi questo atteggiamento produce forme di circoli esclusivi di adepti che si riconoscono tra loro, diventa davvero dannoso. In sintesi, a mio parere non conta più tanto che musica si fa ma come la si fa.

Parlami dell’esperienza “aperta” dell’ex Asilo Filangieri. Quando e perché nasce e come si evolve nel tempo. Fate ancora esibizioni lì?

Proprio per quello che dicevo prima, non poteva essere che quello il contesto naturale per il lavoro di Illachime. Peraltro se non ci fosse stato l’Asilo, probabilmente non saremmo mai tornati a suonare assieme e a registrare un nuovo disco. Parliamo di uno spazio pubblico dedicato alla cultura e gestito in maniera aperta e collettiva secondo i principi delle creative commons, nato nel 2012 e diventato negli ultimi anni punto di riferimento e case study in Italia, in Europa e oltre. In ambito artistico l’Asilo ha innescato processi di produzione e di sperimentazione fondati sulla contaminazione permanente tra arti e saperi diversi che hanno ribaltato la concezione delle politiche culturali degli ultimi anni, ed è qui che il nuovo disco di Illàchime è stato provato, registrato e presentato, avvalendosi della collaborazione di artisti e operatori che fanno parte della sua comunità solidale ed è stato prodotto grazie al crowdfunding lanciato attraverso i suoi canali comunicativi. Per me che lo frequento da anni è molto difficile riassumere in poche parole quello che significa, è possibile capirlo solo vivendolo. Mi limito a dire che di fatto, in più di sette anni, ha sostenuto costantemente la musica di ricerca e incoraggiato la nascita di formazioni inedite, oltre a formare un nuovo pubblico sempre più ampio, eterogeneo e preparato.

Se non ricordo male, tempo fa alcuni di voi sono stati a Reggio Emilia a perorare la causa della gestione dell’ex Asilo. Com’è andata? Ci sono stati altri esempi virtuosi?

Per la verità la causa da perorare fu quella di Casa Bettola – una casa cantoniera autogestita da dieci anni – davanti a una commissione della Provincia di Reggio Emilia (intestataria dell’immobile). Loro chiesero un aiuto all’Asilo non solo perché molto interessati ad abbracciare i criteri dell’uso civico – che, voglio ricordare, sono stati implementati per la prima volta proprio nello spazio di Napoli – ma anche per “sfruttare” la maggiore esperienza del gruppo di giuristi dell’Asilo (non ci dimentichiamo che di recente uno di loro, Giuseppe Micciarelli, ha ricevuto a Lima il premio Elinor Ostrom, in pratica il Nobel per i beni comuni). I risultati ci furono, e non ha caso questa “richiesta di aiuto” si è replicata in altre occasioni, per esempio alla Cavallerizza di Torino e al Montevergini di Palermo. Il problema è che il processo che c’è dietro l’idea di uso civico è tutt’altro che facile da esportare: bisogna raggiungere prima un grado di consapevolezza e di rigore, ed essere sperimentali per vocazione.

Qual è la formazione musicale dei vari componenti dell’ensemble? È notorio come Napoli abbia tutto un suo sottobosco di esecutori e compositori di musiche di ambito sperimentale, no?

Per quanto riguarda il quartetto, intanto ci sono io che, in origine, praticavo l’improvvisazione radicale fin dalla fine degli anni Settanta, per poi formarmi in ambito accademico. Realizzai un po’ di cose di musica da camera, corale e orchestrale finché presi ad allontanarmene, paradossalmente proprio nel momento in cui avevo cominciato a insegnare in Conservatorio nel 1999. Mi riavvicinai quindi alla libera improvvisazione, ma questa volta ibridata e sciolta da rigorismi settoriali, e fu così che nel 2002 fondai assieme a Gianluca Paladino questo progetto. Pasquale Termini, il violoncellista, è l’altro che viene dalla musica classica: appartiene a una famiglia di pregevoli musicisti e lavora tantissimo in ambito teatrale. Gianluca ha invece una formazione da chitarrista autodidatta, molto legato alla tradizione rock degli anni Sessanta-Ottanta, ma quando lo incontrai produceva anche sonorizzazioni elettroacustiche per mostre, installazioni, multimedia. Infine c’è Ivano Cipolletta, batterista che qualcuno ricorderà come fondatore di una delle band più significative della vesuwave napoletana, i Panoramics. Da questo punto di vista potremmo essere i “papà” del sottobosco di cui parli, ma non rivendichiamo nessun merito nella sua costituzione, che va invece a una serie di esperienze, di collettivi e di spazi attivi negli ultimi quindici anni. In effetti Napoli sta vivendo una fase molto interessante nell’ambito della ricerca musicale. Dal festival Altera! a quello de La Digestion, dal Crossroads all’OEOAS, si sono formate schiere di giovani musicisti che, oltre a praticare sistematicamente forme di sperimentazione, mostrano di avere una marcia in più anche quando si ritrovano in vari progetti tra il popolare, il jazz, l’etno e il pop, proprio grazie all’aver partecipato intensivamente a quelle esperienze. Per cui puoi ascoltare un mandolinista un giorno suonare nell’Orchestra elettroacustica, e un altro in una formazione che fa canzoni della tradizione napoletana, ma proprio per questo in un modo speciale. Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza la lungimiranza di alcuni spazi in città: Cellar Theory, Perditempo, Oblomova, Kestè, 76A. Ma in particolare, ancora una volta, l’Asilo: negli anni è riuscito da un lato a generare relazioni proficue tra gli artisti con modalità orizzontali e non settarie di gestione, dall’altro a formare un nucleo consistente di appassionati che ha fatto in modo che anche le proposte più ostiche ricevessero l’attenzione di un pubblico folto e attentissimo, questo soprattutto grazie alla rassegna Geografie del Suono. La speranza, ora, è che l’Asilo riesca a contaminare con le sue modalità anche le realtà più istituzionali della città, cosa che ha già provato a fare in varie occasioni.

Avete già in programma un nuovo lavoro? E siete stati in giro a suonare le musiche presenti in Soundtrack For Parties…?

Sì, l’idea è quella di non far più passare tanto tempo tra un lavoro e l’altro, ma anche di non farci più scoraggiare. Per noi è difficile suonare dal vivo, siamo in quattro, siamo annosi e facciamo musica strana, molto difficile da incasellare in categorie. Questa cosa, ai tempi di Sales, ci portò ad abbandonare il progetto, ma ora non vogliamo più farcene condizionare. Per usare le parole del mio fraterno amico e collega Marco Messina (ex 99 Posse, ndr): abbiamo fatto un bel disco, continuiamo su questa strada senza preoccuparci di tanto altro.

Mi consigli artisti o band che secondo te è il caso di ascoltare con attenzione?

A essere sincero, ascolto e scopro davvero poca musica nuova. Non c’è affatto snobismo né isolazionismo in questo, anzi, e ogni tanto provo a chiedere a qualcuno di segnalarmi qualcosa. Ma preferisco impiegare tutte le mie energie nell’occuparmi delle modalità e dei contesti in cui si fa musica piuttosto che della musica in sé. Da questo punto di vista sono più interessato a quello che si produce a Napoli e, a mio parere, quello che rende una città vivace dal punto di vista artistico, e in particolare musicale, non è il numero e l’importanza dei “grandi eventi”, bensì la presenza e la densità di attività underground. Per molti avere la possibilità di ascoltare i grandi musicisti, in particolare dal vivo, rappresenta un importante momento formativo: può essere, ma lo è di gran lunga di più avere la possibilità di incrociare la propria formazione, qualunque essa sia, con quella di tanti altri, in una prospettiva paritaria ed eterogenea. Quindi, se devo suggerire qualcosa, dico: andatevi ad ascoltare sul Mixcloud dell’Asilo le registrazioni delle varie puntate di Geografie del Suono, in particolare i momenti di interazione tra i musicisti ospiti e quelli nostrani, ci potete trovare cose davvero interessanti e intense.