EYVIND KANG – Chirality / Virginal Coordinates, 21/5/2015

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Modena, Teatro Storchi.

Da un po’ di tempo a questa parte mi sono avvicinata alla musica di Eyvind Kang. Ad affascinarmi è la sua capacità di recuperare tradizioni lontane nello spazio e nel tempo e incorporarle in una propria visione dell’Occidente. Complice la recente uscita del magnetico At Temple Gate, in cui insieme alla moglie Jessika Kenney e alla percussionista coreana Hyeonhee Park ricrea atmosfere di una spiritualità tetra e seducente, il mio l’interesse per i suoi dischi è cresciuto a dismisura, costringendomi a lunghe maratone video di gamelan giavanese, ostaggio di ogni suonatore di setar munito di account Youtube. Nel bel mezzo delle febbrili ricerche ho anche scoperto che avrebbe suonato al Festival Angelica, a circa due ore da casa mia, e ho deciso che non potevo assolutamente perdermelo.
Virginal Coordinates, l’opera che porta in Italia, è stata concepita per la prima volta a Bologna, quindici anni fa, sempre all’interno del festival. All’epoca ad accompagnarlo c’era Mike Patton, stasera ci sarà Alan Bishop e forse questo è un motivo in più per andarlo a vedere, perché i Sun City Girls rappresentano per certi versi una versione anti-colta di Kang.
Il pubblico della serata è piuttosto curioso, pochi giovani e molti abbonati di mezza età, mischiati a parenti o amici dei musicisti. Tutto ciò mi stupisce non poco e dà il polso di una situazione italiana (ma non sono sicura che altrove sia poi così diverso) dove troppo spesso la gente ritiene che la musica contemporanea si sia conclusa con Steve Reich o Philip Glass, o peggio ancora col grande ma ormai geologico maestro Morricone. In Italia c’è poi da sempre un’attenzione scarsa alle musiche orientali, se escludiamo i vari fricchettonismi o i fenomeni da baraccone global zuccheroso e rassicurante. Prova ne è la mancanza di corsi che se ne occupino nei conservatori, salvo rari casi dovuti più allo zelo del singolo insegnante che a un intento programmatico calato dall’alto.
Ad ogni modo stasera grazie ad Angelica potremo illuderci che non sia così: ad accompagnare Kang sarà un ensemble italiano, la MG_INC Orchestra, che scopro essersi esibita di recente con gli Ulver al Teatro Regio di Parma e che è esclusivamente composta e gestita da millennials, cosa che non può che farmi piacere. Oltre a Bishop, altro ospite onorario è Marco Dalpane alla fisarmonica e al moog, nome piuttosto noto nel panorama contemporaneo elettroacustico italiano e internazionale (ha collaborato con gente tipo Fred Frith, Linsday Cooper, Alvin Curran). Rispetto alla versione di quindici anni fa Kang ha ridotto le parti di Virginal Coordinates così come erano state pensate e suonate originariamente e vi ha affiancato Chirality, che è a tutti gli effetti una novità.
Chi conosce bene il compositore e violista americano sa che il motivo del doppio, le opposte polarità, lo yin e lo yang sono temi ricorrenti nelle sue opere e la chiralità, ossia la non sovrapponibilità di un oggetto alla sua immagine speculare, rientra perfettamente in queste categorie. Ma parliamo del concerto che altrimenti rischiate di non capire un accidenti di ciò che dico. La sala si fa buia, si accendono le luci, entra l’ensemble, ultimi Bishop e Kang.

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Il live inizia con un tenue crescendo dinamico e ci vuole un po’ prima che si sveli una canzone che qualcuno di noi già conosce. C’è un cambio di tonalità e all’improvviso il suono si fa pieno con tutti gli archi a dirci che questa è la versione più trasfigurata e ultraterrena di sempre di “CCC” dei Sun City Girls.
L’interesse di Kang per mondi sonori ed ere lontane è subito svelato: l’ombra del Medio Oriente si proietta sulle complicate e verticali progressioni armoniche occidentali, che saranno anche cinematiche ma è più un accidente che altro poiché è sempre il suono a condurci nei territori della soundtrack, mai viceversa.
Una biosfera sonora (così ama chiamarla) in cui, come nel repertorio giavanese tanto caro a Jessika Kenney, c’è una partitura scritta ma ogni esecutore può interpretarla “con configurazioni spontanee, in una gerarchia di azioni e decisioni all’interno di un ensemble senza direttore”. In realtà un direttore, se c’è, è ancora lui, Kang, con la sua chironomia libera ed esplosiva.
Il tocco dei musicisti e le caratteristiche acustiche della sala rendono il suono ovattato e universale, a muoversi in egual misura verticalmente, in una ritrovata comunione, e orizzontalmente, a disegnare complicate architetture organiche. La voce di Bishop è al solito immateriale e cavernosa, dalle coloriture fosche ma calde, avvolgente e stagliata sopra ogni cosa mentre canta “I was layin’ around in a sweaty chlorine aroma, drifting late night in a Calcutta codeine coma”, dove alla commozione della sottoscritta si affiancano ora anche i brividi. Provo a darmi un contegno e mi accorgo che siamo già scivolati in quella che era la traccia d’apertura del vecchio set, “Go In A Good Way”, più vuota e minimale dell’originale, a salire adagio su per scale persiane truccate all’occidentale. Tutto è delicato e soave, come un Ravel convertito al minimalismo, in un Occidente colto consacrato a Pandit Pran Nath. I Masters Musicians Of Bukkake riecheggiano nei passaggi più spinti e non è un caso, poiché Kang ha arrangiato diversi dischi prodotti da Randall Dunn e soprattutto dal suo collega e amico Mell Dettmer. Dolcemente si scivola nelle liriche di “I Am The Dead”, un sogno morbido, che fa somigliare la morte a un infinito richiamo onirico, altro tema caro a Kang. E come la voce della Kinney in At Temple Gate, qui è quella di Bishop a farsi ponte tra due mondi, Terra e Aldilà, in una delicata malinconia, dove le già citate virginal coordinates guidano l’ascoltatore.
Kang ci ha tenuto a dire che la partitura è stata scritta in Italia e non avrebbe potuto essere altrimenti, visto il suo profondo legame con la territorialità, le lingue e le tradizioni locali, e quindi non stupirà se la parte che segue ha un sapore apertamente morriconiano, con archi e metallofono a ricordarci quanto il maestro romano sia ancora profondamente radicato nella memoria collettiva, anche internazionale. Se la parte più raziocinante di me trova tutto ciò un po’ stucchevole, quella bambina cresciuta a gite fuori porta ascoltando a ripetizione “Il buono, il brutto e il cattivo” o “Giù la testa” non può che esserne grata.
Alcune parti del live sono delle vere e proprie trasfigurazioni di quello documentato del 2000, con gli intrecci dei fiati e le percussioni di “Doorway To The Sun” che divengono “Chirality”, quasi un’attualizzazione della versione cameristica del classico “In C” di Terry Riley.

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Le scorribande spazio-temporali si cristallizzano nella calma solenne di “Virginal Coordinates”, la più spaziale di tutte, celestiale e oscurata dai bassi di moog che crescono nelle virate retrofuturistiche di Dalpane, a stratificare era su era, in una sorta di Cloud Atlas sonoro smussato ed elegante. In un certo senso è interessante notare come il suono e la sua ombra si siano distanziati in quindici anni. Virginal Coordinates e il suo doppio che ridisegna una pièce ormai deformata fino a divenire qualcos’altro di più spurio, dove Kali e la Vergine Maria sono il nostro Giano e la versione ensemble di “Maybe I’ll Kiss And Die A Fool” è lì a ribadirlo.
Kang rientra per regalarci l’ultimo pezzo della serata, un solo di viola dove riconosco “Kidung” da The Face Of The Earth, uscito nel 2012 in coppia con Jessika Kenney, la grande assente evocata più volte nel macrocosmo di una pièce corale, estrema emanazione di quel laboratorio a due confluito in una manciata di dischi usciti in poco meno di dieci anni. E infatti Aestuarium stava a The Face Of The Earth proprio come Virginal Coordinates sta all’omonima opera coadiuvata da Chirality. Il suono e la sua ombra, doppi che si irradiano lontani nello spazio e nel tempo.

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