ENSLAVED, Grutle Kjellson

Brescia, Circolo Colony, 30 novembre 2017. Anche le foto sono di Antonio Cassella.

Il mio primo ricordo legato agli Enslaved mi fa tornare al 1995, quando, durante una pausa pranzo dal liceo, il me stesso primino (anzi, quartino, in gergo da liceo classico) si recò al negozio di dischi di fiducia e prese in mano una copia di Frost, persuaso dai consigli degli amici che parlavano di parti di batteria disumane, chitarre che snocciolavano riff glaciali e un cantato in norvegese che “non si capisce niente ma, proprio per questo, fa ancora più figo”.

Da allora, non ho più potuto far a meno di seguire l’evoluzione di questa band, con meraviglia e piacere costanti, apprezzandone le scelte stilistiche e attendendo ogni nuovo disco come fosse un regalo.

Ventidue anni dopo, mi ritrovo a dialogare con Grutle Kjellson, voce, basso, membro fondatore e, insieme a Ivar Bjornson, anima di un fenomeno musicale che ha saputo perdurare per più di un quarto di secolo, superando i limiti di genere, di scena e anche di purezza stilistica a ogni costo.

L’intervista è stata raccolta prima di quello che si è rivelato essere un live superlativo, che ha coniugato una capacità esecutiva stellare con carisma, confidenza e passione per quel che si sta proponendo sul palco. La scaletta ha riproposto episodi dagli ultimi album, con particolare ma non eccessiva attenzione per le canzoni di E, così come sguardi nel passato più remoto della band, rivelandone l’invidiabile capacità di sapersi reinventare ed aggiornare senza mai cedere il passo alla moda del momento, restando sempre fedele alla propria missione musicale.

Nota di merito ai romani Adimiron, che hanno aperto la serata con uno spettacolo di death metal progressivo moderno, personale e mai scontato.

Ho avuto il piacere di rivedervi, dopo molti anni, proprio vicino a casa mia, in occasione del Fosch Fest 2016. Mi ricordo che verso la fine del set, hai scherzato con il pubblico annunciando che, per chiudere il concerto, avreste eseguito una serie di cover del Banco del Mutuo Soccorso. È stato un momento divertente ma mi ha dato anche molto da pensare: sei un fan del prog rock italiano?

Grutle Kjellson: Sì, mi piace molto il prog rock italiano degli anni Settanta, credo che se ami la musica e in particolare la musica prog, è semplicemente inevitabile interessarsi alle band che hanno definito questo genere nel tuo Paese. C’erano un sacco di gruppi eccellenti negli anni Settanta in Italia, da Le Orme alla PFM, al Banco, al Museo Rosenbach e così via, e credo abbiano dato vita ad una scena molto diversa dal prog rock inglese. Questo era più caratterizzato da una commistione di elementi jazz e rock; penso ai Genesis di Trick Of The Tail o agli Yes di Close To The Edge, insomma, le pietre miliari che hanno definito lo stile del prog anglosassone. Le band italiane, invece, erano caratterizzate da tratti propri della musica classica, più orchestrali e meno convenzionali o aderenti a quanto veniva fatto nel resto d’Europa in quel periodo. Inoltre cantavano in italiano, il che le faceva sembrare esotiche, peculiari e al tempo stesso molto diversi da tutto il resto, rendendole estremamente interessanti per contrasto.

La vena prog negli album degli Enslaved è sempre stata ben presente ed è da sempre uno dei vostri tratti identificativi. Ma sei tu il “progster solitario” della band o anche gli altri ti seguono in questa passione per gli Anni Settanta? E cosa ne pensi delle sue evoluzioni dopo quegli anni?

Mi piace moltissimo la produzione prog degli Anni Settanta, mentre non sono molto appassionato della musica prog rock o, peggio ancora, prog metal contemporanea; in particolare, penso che quest’ultima sia più che altro un modo per vantarsi di un determinato virtuosismo, troppo tecnicismo fine a se stesso, non fa per me. Gli anni Settanta, invece, sono decisamente il periodo che preferisco in assoluto come produzione musicale, mi piace ascoltare anche l’hard rock classico che è stato scritto all’epoca, come quello degli Scorpions o degli UFO e così via, credo che tutta la musica di quel tempo suonasse benissimo e fosse molto più evocativa ed atmosferica rispetto a quanto sia stato prodotto sulla scia del genere successivamente.
Anche ad Ivar piace il prog rock e il nostro nuovo tastierista, Håkon, suona prog rock-jazz nei Seven Impale, quindi, sì, direi che sono in buona compagnia!

Dopo ventisei anni di carriera state affrontando un altro tour. Com’è andato questo in particolare e che sensazioni ti ha dato?

Il tour è stato fantastico, abbiamo suonato sedici concerti come gruppo principale e anche alcuni show di supporto agli Opeth, in Inghilterra. La risposta del pubblico è sempre stata spettacolare e sono davvero soddisfatto per come rendono le nuove canzoni.
Suonare dal vivo è sempre divertente, anzi, ad essere onesti, ora è anche molto più divertente di quanto lo fosse vent’anni fa, quando era tutto molto più difficile organizzarsi e viaggiare. Ciononostante, devo dire che ci sono sempre delle seccature, ad esempio, i tempi morti sono e saranno sempre noiosi (ride, ndr). Insomma, ci sono dei momenti belli e dei momenti brutti nella vita da tour, ma credo proprio che ci siano cose ben peggiori dell’andare in giro per il mondo a suonare la tua musica!

Prima di parlare del vostro ultimo lavoro, E, vorrei chiederti quali sono state le vostre priorità quando vi siete messi alla ricerca di un sostituto per Herbrand Larsen.

Prima di tutto, era nostra ferma intenzione sfruttare al meglio il fatto che avessimo delle tastiere nel gruppo. Non volevamo un clone di Larsen, volevamo ripartire a scrivere E dando maggior rilievo alle parti tastieristiche in sede di arrangiamento; in buona sostanza volevamo un tastierista più talentuoso di Larsen, che potesse elaborare parti che non fossero solo di sostegno e riempimento dietro le chitarre, ma che risultassero più prominenti nel mix e protagoniste nelle canzoni.
Abbiamo trovato Håkon (Vinje), che è un ottimo strumentista e siamo estremamente contenti della nostra scelta.

Passando ora al lato compositivo vero e proprio di E, nonostante si tratti, a mio avviso, del vostro lavoro più squisitamente progressivo e ricercato a livello di arrangiamento, riesco a sentire echi e richiami di sonorità più ruvide ed estreme, provenienti dai vostri primi lavori. Quanto sono importanti le vostre radici quando vi approcciate alla scrittura di un nuovo disco?

Le nostre radici sono sempre importantissime per noi, in ogni album che abbiamo scritto, tuttavia, questa consapevolezza, questa eredità, con tutta la sua influenza sul presente, rimane a livello inconscio. Non riprendiamo sonorità in maniera conscia e intenzionale, piuttosto credo sia ormai divenuto per noi naturale far riferimento a determinate idee consolidate lungo il corso degli anni. Per esempio, quando dobbiamo comporre materiale contente passaggi più estremi, diviene automatico andare a pescare da parti e stilemi aggressivi che hanno caratterizzato lo sviluppo della nostra carriera, solo che ora guardiamo a questo materiale come una voce usata per dialogare con altre situazioni più dinamiche all’interno delle nostre canzoni. C’è sempre stata, per così dire, una linea di continuità identitaria che definisce chi siamo nel tempo e attraversa i nostri dischi nonostante presentino numerose differenze tra di loro. Dopotutto siamo sempre gli Enslaved ed è sempre Ivar che scrive i riff! (ride, ndr) Quindi, sì, non penso che il ritorno di determinate sonorità sia una pura coincidenza, più una naturale evoluzione di un’eredità stilistica.

A livello narrativo, E non si qualifica come un vero e proprio album a tema, tuttavia, il suo nucleo tematico è chiaro ed incentrato su di una runa. Questo richiamo al linguaggio runico è ricorrente da sempre nei vostri dischi, credi che le rune abbiano un ruolo comunicativo prominente e attuale?

Assolutamente sì, perché ogni singola runa rappresenta determinate forze nell’essere umano, nella persona, sia fisicamente che nella sua mentalità, oltre ad aprire un enorme discorso legato alla cultura e alla tradizione. Allo stesso tempo, infatti, una runa racchiude in sé i tratti rappresentativi di determinati dei, divinità, di un mondo metafisico che sta tra l’umanità e la natura; in questo senso, il loro ruolo simbolico diviene evidente e possono essere utilizzate per comunicare in maniera sintetica una serie di concetti che, altrimenti, diventerebbero complicati e oscuri. Possono essere simboli del sogno, di ciò che non vediamo quando siamo coscienti, sono una sorta di porta che si apre sulla connessione tra l’uomo e la natura, che resta nascosta quando crediamo di essere più vigili e che, invece, si apre sul mistero quando ci abbandoniamo al suo vuoto.

Per chiudere, ricordo con piacere un’immagine che avevo visto alcuni mesi fa sul vostro profilo Facebook. Era un manifesto con il vostro logo e sei bambine delle elementari in posa a ricordare voi. Lo trovai simpatico e buffo, poi lessi il testo che accompagnava l’immagine e venni a sapere che avevate tenuto un incontro con dei bambini delle scuole elementari norvegesi per parlare della vostra musica. Quali sono i tuoi pensieri riguardo quell’esperienza e quant’è stata importante per te?

È stata un’esperienza meravigliosa, unica.
I bambini sono stati fantastici, erano interessati perché, essendo così piccoli, riescono ad adattarsi alla svelta a molte idee, anche quando sembrerebbero assai distanti dal loro mondo, e questo è possibile perché sono giovani e curiosi.
Abbiamo provato a fare la stessa cosa con degli adolescenti delle scuole superiori una volta e abbiamo raccolto la reazione opposta: inaspettatamente si sono rivelati molto poco interessati, distaccati, si annoiavano subito. La parte più triste, per me, è stata constatare che solo due o tre ragazzi tra quelli che abbiamo incontrato avevano un vero e proprio interesse nella musica e suonavano in un gruppo. Se penso che, quando ero adolescente io, funzionava esattamente al contrario, non posso che rammaricarmi per un simile disinteresse.
In quell’immagine in particolare, invece, le bambine che hanno fatto finta di essere noi Enslaved, fanno parte del coro scolastico e hanno poi cantato con noi “Daylight”, da In Times dopo il nostro intervento presso la loro scuola. È stato davvero bello e abbiamo potuto mostrare a loro nella maniera più naturale e diretta possibile che, in fondo, siamo persone normali anche noi! (ride, ndr)
Credo, addirittura, che alcuni bambini abbiano poi cercato e ascoltato la nostra musica; direi che, se siamo riusciti a raggiungerli, interessarli e coinvolgerli, a farli, per così dire, passare dalla nostra parte, allora l’esperimento è stato un successo.