Emptiness: l’agrodolce impalpabilità del male quotidiano

Se dovesse capitarvi di ascoltare il primo album del gruppo belga Emptiness, Guilty To Exist del 2004, trovereste un disco death/black metal, con growl e doppio pedale. Da allora la band di Bruxelles si è sempre presa i propri tempi, pubblicando lavori ogni tre o quattro anni e assistendo, quasi come degli spettatori, al mutamento della sua musica e della sua identità. Disco dopo disco i ritmi hanno rallentato, il cantato si è fatto meno gutturale, i suoni si sono più definiti e con Nothing But The Whole del 2014 è stato abbandonato il logo tipico da gruppo metal. Nel 2017 è avvenuta poi la svolta definitiva con Not For Music. Pubblicato da Season Of Mist, era un album dalla struttura complessa che conteneva momenti lirici e sospesi, sconfinando nell’ambient e nel post-rock.

Vide (che in francese significa “vuoto”, un richiamo quindi quasi tautologico al nome del gruppo), anch’esso uscito per Season Of Mist, segna una tappa ulteriore. Il sound trasmette una sensazione di leggerezza quasi incorporea, si direbbe il contrario della pesantezza degli inizi. Il male di vivere, certo quello è ineliminabile ed è difficile pensare che andrà via. Jérémie Bézier, oltre a suonare il basso, a cantare e a scrivere i testi come di solito, si è occupato dell’intera produzione di un disco intimo più che mai, considerato che è stato registrato quasi interamente all’interno della sua casa. Insieme a lui il co-fondatore del gruppo Olivier JLW alla chitarra e ai synth, il batterista di lunga data Jonas Sanders e la nuova entrata David-Alexandre Parquier (anche lui ai synth). «Non sapevamo se la musica che stavamo facendo fosse buona o meno ma ci siamo innamorati dell’esperimento e siamo andati avanti», ci ha raccontato Bézier. Gli abbiamo chiesto qualcosa di più su Vide, un disco che dimostra, ancora una volta, che agli Emptiness non manca né il coraggio né la personalità.

Il tuo gruppo si evolve ad ogni album, ma con Vide il vostro suono è sempre più distante da ogni stereotipo. È stato un processo naturale?

Jérémie Bézier: È stato un processo naturale, non ci siamo mai forzati. Semplicemente nel corso della vita si cambia, si diventa persone differenti e la musica ne è un riflesso. È una questione di libertà, di poter fare come musicista ciò che rende felice innanzitutto te anziché gli altri. In questo modo è normale che si approdi sempre a qualcosa di diverso, naturalmente devi osare per farlo e noi siamo orgogliosi di esserci riusciti. Sicuramente stavolta eravamo un po’ più spaventati del solito, quando abbiamo iniziato a comporre non sapevamo neanche ne sarebbe uscito un disco degli Emptiness, il punto era più quello di stare insieme e fare dei tentativi. Ci siamo divertiti molto, ma eravamo incerti di come avrebbe reagito l’etichetta e chi ci segue. Sappiamo che è un album difficile, che va ascoltato più volte per essere compreso, ma rispecchia ciò che ci piace veramente.

Nell’album mi ha colpito molto il mescolarsi di armonia e disarmonia che trasmette una sensazione di comfort e di disagio allo stesso tempo. Quali musicisti vi hanno ispirato?

In un certo senso è musica orecchiabile ma acquista un significato diverso se ci si va più a fondo. Mi piacciono molte band indie, sono un fan degli MGMT ad esempio. Penso che il disco sia divertente e dark allo stesso tempo. Il punto era proprio di proporre qualcosa di confortevole ma con qualcos’altro di nascosto e minaccioso all’interno, così da comporre un album che si potesse ascoltare in situazioni e con umori diversi.

Avete registrato il disco in gran parte fuori dallo studio — anche se tu ne gestisci uno, il Blackout Studio a Bruxelles — preferendo utilizzare il tuo appartamento e la tua terrazza sul tetto. Perché avete sentito questa necessità?

Provo a passare meno tempo in studio e a concentrarmi di più sulla musica, di non trovarmi sul luogo di lavoro ma di recuperare una relazione legata solo al piacere, come quando eri un ragazzo. Senza stress e senza pensare che poi ne verrà fuori un album, con la promozione e tutte le altre dinamiche… stare fuori dal mondo, in un certo senso. Da tempo avevo quest’idea di fare un disco claustrofobico, in cui si percepisse di essere in una piccola stanza, ma in quella piccola stanza c’è l’infinito. È stato quindi naturale registrarlo in ambienti piccoli. L’arrivo del lockdown durante le registrazioni è stato strano, perché era in stretta connessione quello che stavamo già facendo. Inoltre, visto che prendo la composizione molto sul serio e che le dedico tutte le mie energie, ero già un po’ al di fuori dal mondo sociale da qualche tempo. Mi sembra che nella musica che abbiamo fatto c’è molta energia che non so da dove provenga, è una strana creatura che ci supera. Nell’album c’è questo tema secondo cui l’esistenza non è totalmente reale, come se qualcuno stesse giocando con te… e ci ha colpito molto in relazione a quanto accadeva fuori.

Con l’album precedente Not for Music il processo era stato molto diverso, con parte della produzione svolta a Los Angeles insieme a Twiggy Ramirez.

È stata una bellissima esperienza per noi, che non siamo una band molto conosciuta e lo eravamo ancor meno prima di quell’album. Ci piace molto in realtà essere un gruppo un po’ nascosto e strano. Twiggy Ramirez ci contattò e ci invitò a Los Angeles, è stato bello avere una grande produzione alle spalle. Stavolta è stato l’esatto opposto: solo noi eravamo coinvolti, nessuno dall’esterno. Sono processi differenti, ogni volta che facciamo un disco ci piace ripartire da zero, non utilizzando ogni volta la stessa formula a seconda del risultato che vogliamo ottenere.

Prendendo in esame i testi di Vide spesso ricorrono come temi l’amore, la famiglia, la procreazione, considerati come fonte di malvagità e dolore.

Sono felice che tu lo abbia notato! Nel disco precedente volevamo andare in una dimensione molto distante da quella quotidiana, stavolta volevamo che tutto fosse più umano, c’è solamente un piccolo scarto che è ciò che basta affinché non ci si senta a proprio agio. L’idea che c’è dietro all’album è di mostrare diverse parti della vita. Nel primo brano c’è un respiratore, come se una persona stesse morendo e quelli fossero i suoi ultimi pensieri, poi ci sono altre fasi e il disco finisce con questo pianto della nascita… ci interessava trasmettere il concetto per cui l’esistenza di per sé non è qualcosa di naturale, se osservata dall’esterno è una cosa molto strana. È divertente ad esempio vedere le reazioni di chi guarda un bambino nascere, c’è una sensazione di forte repulsione e ci si chiede il motivo.

Perché hai scritto i testi in francese per la prima volta?

Per essere più spontaneo. Volevamo che tutto provenisse dall’improvvisazione e dal profondo, desideravamo essere noi degli strumenti delle idee e dell’energia. Essendo il francese la mia prima lingua, mi è sembrato il modo per far comunicare più direttamente il mio cervello con la mia mano.