ELVIN BRANDHI, OWsT
Elvin Brandhi (all’anagrafe Freya Edmondes) è poetessa, sound-artist e producer; è originaria del Galles ma incarna di fatto alla perfezione lo spirito nomadico di una musicista dell’era digitale, che porta con sé solo lo stretto necessario e vive dell’apertura agli incontri, ai confronti: innumerevoli, citiamo almeno quello con Sara Persico, l’estemporaneo trio con Pat Thomas e Tony Allen, il duo – che ha dato alle stampe un pregevole album – con Nadah El Shazly, senza dimenticare il curioso duo Yeah You con il padre Gustav Thomas.
Invitata da Xing, lo spazio performativo di Bologna che dall’alba degli anni 2000 è un punto di riferimento, di creazione e condivisione di esperienze legate ai nuovi e ibridi linguaggi performativi e artistici, la Brandhi – che ha anche studi d’arte alle spalle – ha offerto una performance dalla quale ha avuto origine il disco di cui parliamo. Pubblicato nella collezione “Xong – dischi d’artista”, OWsT è la diciottesima uscita di questa etichetta, qui su vinile bianco, in edizione limitata e numerata di 150 copie, assieme a una tiratura di 20 collector’s edition accompagnate ciascuna da uno stemma-talismano dipinto dall’artista con inchiostro naturale nero di seppia.
OwsT (deformazione di “Oust”, termine che sta per “scacciare”, “estromettere”, “espellere”) mantiene fede al suo significato: è il tentativo, ai margini della parola, nella sfera equivoca tra suono, senso e significato, di un’estromissione, quella della parola, del testo, della lingua, del verbo – per dirla forse più chiaramente.
Il disco, che si compone di due lunghi brani, riflette una rabbia cieca, una furia iconoclastica; sono lacerti di suoni, frammenti di discorsi, urla smozzicate, flussi di coscienza senza censure, piccole valanghe sonore devastanti; quasi una dichiarazione, o una constatazione piuttosto, sull’impossibilità della parola di riuscire a esprimere tutto e sulla frustrazione che deriva da questa lotta impari.
I paesaggi sonori che la Brandhi disegna sono impervi, scoscesi, decisamente pericolosi; non offrono appigli, vie d’uscita, momenti di pausa.
Musica tutt’altro che consolatoria che tuttavia nella seconda parte del disco trova una pericolante armonia, dove il suono sembra sfuggire a una caparbia distorsione e quasi trovare una possibilità residua. Per quanto ancora brutale e volutamente sgarbato, si fa meno minaccioso e – a tratti – si indovina, si intravede, un barlume di “cantabilità”, ancorché ancora in schegge, per frammenti, uno sfinimento che apre a un possibile superamento.