ELIO MARTUSCIELLO / OTOMO YOSHIHIDE, 3/2/2018 (La Digestion ed. II)

Napoli, Fondazione Morra.

Carlo Serra

Il sublime come categoria all’interno della quale ogni giudizio di bello o di brutto viene sospeso in favore di un generale sbigottimento dei sensi: il terzo episodio de La Digestion edizione 2017-2018 inizia con una conversazione con Carlo Serra, ricercatore presso l’Università della Calabria, dove insegna Estetica e Filosofia della Musica. L’intensa e stimolante chiacchierata con Serra inaugura quella che sarà tutta una serie di riflessioni all’interno della rassegna napoletana, su ciò che sta dietro e dentro l’esperienza musicale: si inizierà dall’ascolto di un frammento tratto da “Déserts” di Edgar Varese e si arriverà ai clacson di una cooperativa di autisti di pullman ghanesi. Nel mezzo ci saranno un rituale funebre della Papua Nuova Guinea, la haka dei Maori e i tamburi ad acqua dei Pigmei Baka: unendo tutti i puntini viene fuori l’immagine dell’evento sonoro così come pensato da Serra, musica e rumore come fatto che avviene in un tempo e in uno spazio, come esperienza materiale in bilico fra percezione e immaginazione. Fra i concetti dispensati dal filosofo è proprio quello di “sublime” a cui viene dato particolare risalto, un’importante ed utile chiave di lettura di molte proposte musicali radicali.

Spazio, dicevamo: i luoghi all’interno di cui si avvicendano le varie tappe de La Digestion diventano fattori fondamentali della manifestazione, cominciata nella meravigliosa Chiesa di San Potito con William Basinski e continuata con Francisco Meirino e il duo audiovisuale Kanaka presso la Chiesa di San Giuseppe alle Scalze. A ospitarci questa volta è una casa-museo, quella della Fondazione Morra, un’area espositiva allestita all’interno di Palazzo Cassano Averbo d’Aragona, nel quartiere Materdei, in cui la famiglia Morra ha pianificato cento anni di mostre legate da rimandi, attraversamenti e ritorni, come in un gioco dell’oca simbolico. Fra le opere ospitate nell’archivio, i relitti di Hermann Nitsch, i resti delle performance dell’esponente massimo dell’Azionismo viennese a cui la famiglia Morra è da anni legata da un rapporto di amicizia: ampolle, strumenti medici, paramenti sacri, testimonianze vive e toccanti della controversa attività dell’artista. Nella sala in cui si svolgeranno i set, invece, fanno mostra di sé grosse tele dal sapore pollockiano, non tanto nei toni, particolarmente tenui, quanto nella tecnica che ricorda il dripping: qui i quadri si fondono con gusto impareggiabile con l’intonaco scrostato delle pareti, di cui a fine serata porteremo a casa segni evidenti sulle terga.

Martusciello, foto di Kleopatra Anferova

Arrivo giusto in tempo per il set di Elio Martusciello, anch’egli accademico (insegna musica elettronica presso il Conservatorio di Napoli), oltre che sperimentatore di lungo corso: la sala è piena come un uovo, alla faccia di chi vorrebbe l’avanguardia legata indissolubilmente ai piccoli numeri, così riesco a malapena a trovare un posticino sul fondo dello stanzone, schiacciato fra la parete laterale e un faretto a luce blu. Davanti a me vedo solo teste e spalle, non essendo esattamente un watusso non riesco a buttare l’occhio sul proscenio: poco male, mi dico, in fondo la musica di Elio è essenzialmente acusmatica, il gesto non viene mai collegato al suono, e quindi tanto vale chiudere gli occhi o seguire il pulviscolo che sembra staccarsi dalle pareti e dal vecchio soffitto a travi, danzando in maniera suggestiva all’interno del fascio di luce bluastra. La performance inizia con un unico lungo suono, finemente modellato, corposo, spesso (il suono come esperienza materiale, dicevamo), che sembra da solo riempire tutto lo spazio acustico e che starei a sentire per ore, quindi il punto di rottura, lo sbattere, il rimestare, lo stridere: tutta una serie di suoni criptici eppure immaginifici, non immediatamente riconducibili a niente di familiare, di volta in volta associabili a stati generici, solidi, liquidi, gassosi. Quindi si fa largo a stento, in mezzo a questa poltiglia, un simulacro di archi, sembra di vederli lontani, sfocati, poi il piano, suonato in maniera scriteriata, presenza ingombrante, poi i rintocchi della batteria, nervosi: sul finale Elio ci concede una chitarra, reale questa, adagiata sul tavolo, le corde grattugiate, sfregate con l’archetto, quindi il tintinnio del triangolo e non resta più nient’altro. L’esperienza del sublime, dicevamo.

Yoshihide

La scelta di affiancare il set di Martusciello a quello di Otomo Yoshihide si dimostra quanto mai azzeccata. Laddove la musica del compositore napoletano si rivela immersiva, concedendo poco o nulla all’occhio, quella del giapponese è invece profondamente legata al gesto: attira lo sguardo quel maltrattare senza pietà i giradischi per cavarne suoni terrificanti e attraenti nel contempo. Otomo, cappellaccio calzato sulla testa, felpa e All-Star, si sgranchisce le dita prima di dare inizio alla sua performance; imbraccia la chitarra, una vecchia Gibson semiacustica, e comincia la sua antifona d’ingresso con cui irrora l’uditorio di feedback che corre lungo e oltre la linea del fastidio. Quindi passa in maniera abbastanza netta ai piatti, lo scrosciare dei graffi sul vinile dà una prima parvenza di eleganza e pacatezza all’esibizione, ma è subito un piombare nel parossismo più radicale. Per un attimo Otomo recupera il groove, ma di nuovo è una ridda di microbattiti scomposti e rumoracci. I vinili vengono sottoposti ad ogni sorta di fantasioso sopruso, suonati in maniera sbilenca, uno sull’altro. Su alcuni vi è applicato del nastro isolante colorato, in modo da creare un ritmo e, allo stesso tempo, da far sì che la sventurata puntina salti in maniera aleatoria da un solco all’altro: in questa maniera un brano, che ne so, di jazz tradizionale sembra diventare, sotto le dita di Yoshihide, free jazz suonato sotto anfetamine. A volte il giapponese non mette nemmeno il disco sul piatto, suona direttamente il tappetino o il piatto stesso nudo e crudo: l’apoteosi avviene quando mette il vinile sopra (!!!) il braccio del giradischi e lo sfrega con l’archetto. Tutte queste cose, dette così, potrebbero far pensare a una baracconata, ma il punto è che funzionano, hanno un loro senso all’interno della performance: lo stile di esecuzione del giapponese diventa fortemente dissacratorio, crea una connessione fortissima con il pubblico che così diventa parte integrante di un rito. Otomo prende a pugni i suoi Technics, li solleva e poi li rilascia bruscamente, picchia talmente forte sulle sue macchine che il tavolo sembra non reggere la sua furia creativa: il corpo che viola la materia e ne trae suono. Continuando a prendere spunto dalle riflessioni del pomeriggio, le due ricerche musicali, quella di Martusciello e quella di Yoshihide, così diverse, così complementari giustapposte le une alle altre, sembrano accomunate da un’unica decisione, quella di mettere in risalto il lato umano dello strumento-macchina.

Il prossimo appuntamento de La Digestion sarà il 31 marzo e vedrà protagoniste le esibizioni di Rie Nakajima e Pierre Berthet, nella suggestiva location del Cimitero delle Fontanelle, e quelle di David Toop e Michał Libera, di nuovo nella Chiesa di San Giuseppe alle Scalze.