ELENA M. ROSA LAVITA, WABI SABI

Ho spesso incrociato la musica di Elena M. Rosa Lavita, anche se ho avuto il piacere di sentirla suonare e di conoscerla dal vivo una sola volta, a dicembre del 2023. Ciò è avvenuto poco dopo aver apprezzato (e molto) la sua rielaborazione de “Il lago dei cigni” di Čajkovskij.

In questa occasione, però, il contesto e la premessa del suo lavoro, WABI SABI, cambiano radicalmente. Il termine descrive infatti la visione del mondo nipponica, basata grossomodo sull’accettazione della “bellezza imperfetta, impermanente e incompleta”. Non si tratta quindi di una mutazione o di una crescita, come nel caso del cigno, bensì di un’accettazione del proprio essere nel presente. Ed è proprio dal presente che Elena opera, martoria e offre quest’ora di suono, aiutata in minima parte dal suo sodale di mille progetti, Denis Vignoli, con mix di Paul Beauchamp e mastering di Guillermo Pizarro.

Il suono di WABI SABI appare in egual misura duro e cruento, ma splendido nel suo deciso ondeggiare, come in una “As” che ipnotizza per quanto è raggelante. È come una donna che ti fissa immobile da qualsiasi distanza senza lasciare altro messaggio che un brivido sulla schiena. WABI SABI sembra una discesa nell’oscurità che ognuno di noi porta in sé, il che non può che essere interpretato come un gesto di enorme apertura e forse già di catarsi e reazione.

In “An” c’è di che avere paura per ciò che ascoltiamo: versi di certo rubati a qualche creatura in modalità ultraterrene che spaventano e affascinano in egual misura. In “Haiku” le corde del basso sembrano tendersi sopra dirupi ringhianti e bollenti, in un equilibrio instabile e seducente. La materia sonora è spezzata, friabile, pungente, inconsueta e meravigliosa. Riesce ad aprire varchi, creando negli spazi la migliore disposizione e preparandoci a essere “vittime” del vento dell’ultima traccia, un vettore che, come sappiamo, riesce a trasportare il suono anche da luoghi discosti e misteriosi.

Come già nel disco, il messaggio sembra essere l’imperfezione, e Rosa Lavita riesce a esserne l’alfiera, trasformandone le profondità in musica suggestiva, saziante e straziante, tanto da far dubitare che l’interlocutore ricercato possa essere umano. O forse lo è, ma in questa oscurità non riusciamo a definirne i contorni, venendo costretti a tenerci stretti soltanto questa musica.