Ehnahre / Ryan McGuire: esercizi di de-composizione

Gli Ehnahre rappresentano, oggi più che mai, una vera e propria sfida per l’ascoltatore a causa del loro percorso di astrazione sempre più marcata dalla matrice metal che ne ha segnato le origini.

EHNAHRE, Quatrain

Nata originariamente ad inizio millennio come formazione a cavallo tra differenti varianti di metal estremo e messa in stand by con l’entrata di McGuire nei Kayo Dot, la band è ritornata in azione nel 2006 forte di un approccio completamente differente, che si è andato radicalizzando con il succedersi delle uscite e l’introduzione di elementi via via maggiormente preponderanti di musica contemporanea e concreta, grazie a una pulsione sperimentale che ormai lascia ben poco spazio alla canonica struttura e agli elementi fondanti del background giovanile dei musicisti originari e di quelli che negli anni si sono loro aggiunti o subentrati. Con Quatrain, Richard Chowenhill (chitarra), Joshua Carro (percussioni), Ryan McGuire (contrabbasso) e Jared Redmond (piano) hanno deciso di operare un’ulteriore forzatura e offrono all’ascoltatore quello che è a tutti gli effetti un piatto scomposto nei suoi ingredienti, così da affrontare ciascuno una delle quattro tracce che lo compongono in ogni suo aspetto e mettersi alla prova in solitaria. Nonostante la composizione e la strumentazione impiegata siano totalmente scollegate e ciascuno dei quattro musicisti operi in proprio, il lavoro risulta comunque godibile nella sua interezza proprio per la visione unitaria che anima gli Ehnahre, la stessa che li porta qui a tracciare, seppure con angolazioni e approcci differenti, una mappa di ciò che una volta uniti riescono a fondere per dar vita ad un linguaggio tanto instabile e in continua evoluzione, quanto in fondo legato a un percorso coerente e dotato di una matrice ormai ben riconoscibile. Così, dall’iniziale esplosione di chitarre dissezionate e pesantemente manipolate da Chowenhill, si passa attraverso le composizioni di Carro e McGuire per arrivare al piano di Redmond come si trattasse di un flusso unico o, meglio, di un lavoro eterogeneo ma non frammentario o discontinuo. Soprattutto, si può osservare da una posizione privilegiata quelle forze che poi andranno ad interagire per dar vita ad uno dei vari dischi degli Ehnahre di cui abbiamo fin qui parlato, da Old Earth a Douve, da Nothing And Nothingness a The Marrow, cui dovrebbe a breve seguire un nuovo lavoro a giugno. Un momento a sé nella discografia della formazione, ma non per questo da tralasciare soprattutto se si è apprezzato e seguito quanto finora realizzato.

RYAN MCGUIRE, Lessness

In questo stesso periodo esce anche un disco solista di Ryan McGuire che prende il titolo da un breve racconto di Samuel Beckett, scritto in francese nel 1969 e intitolato “Sans”. Definito anche come “un esercizio di decomposizione”, si dice sia stato in parte ispirato dalla musica di John Cage e dal suo approccio sperimentale. A leggere il testo di Beckett e i vari articoli e saggi che ne hanno trattato, si comprende come ciascuno dei nomi fin qui citati (compreso lo stesso McGuire) si ricolleghi attraverso un approccio metodologico all’uso del linguaggio prescelto, sia esso basato sulle parole o sulle note, ovverosia ciò che in “Sans” è la propensione all’utilizzo reiterato di pochi termini, seppure coniugati in modi differenti e accompagnati da differenti elementi di contorno. A questo vanno aggiunte l’apparente mancanza di senso compiuto e, al contrario, una struttura che sembra seguire regole matematiche per rappresentare una situazione di deprivazione e appunto di mancanza (cfr. samuelbeckett.it). Ciò che qui rileva, visto che di musica andiamo a parlare, è come questo testo funga oggi da ispirazione a McGuire per la creazione e la successiva registrazione di sei composizioni di varia lunghezza, dai cinque ai venti minuti della conclusiva “Endlessness”, concepite per quattro bassi amplificati, quattro voci amplificate e quattro percussionisti amplificati e in grado di dar vita ad un viaggio sonoro tanto affascinante quanto ricco di suggestioni. La resa dell’idea stessa di privazione è raggiunta da McGuire grazie a suoni dilatati e sospesi, cigolii e distorsioni lasciate riverberare come in un’immagine tremolante in cui i contorni delle figure si fanno meno netti e il tutto acquista un effetto onirico, quasi spettrale, in cui l’ascoltatore può perdersi o cercare al contrario un bandolo della matassa, un’interpretazione che non debba essere per forza oggettiva o univoca. Un lavoro oltremodo interessante e ulteriore riprova dell’abilità del suo autore nel trattare i suoni all’interno di una visione non convenzionale ma non per questo meno affascinante di musica.