DYLAN CARLSON, Conquistador

All’uscita di The Bees Made Honey In The Lion’s Skull sottolineai come a mio parere si trattasse di una normalizzazione rispetto al capolavoro Hex; Or Printing In The Infernal Method, un passo di troppo verso la forma canzone che aveva fatto perdere quell’atmosfera maledetta alle composizioni della band per tuffarle in una ricerca filologica e, in fondo, meno personale della musica americana. Mancava quell’alone da trailer park, quel mood luciferino e sospeso che faceva scorrere i brividi lungo la schiena e lasciava intendere più di quanto fosse possibile scorgere nelle note sospese. Una sensazione che mi è sempre rimasta e che ha relegato quell’album in un angolino, soprattutto dopo l’uscita dei successivi e ben più appaganti Angels Of Darkness, Demons Of Light I e II, ma ancora non in grado di farmi sentire di nuovo quella botta di adrenalina provocata dall’album del 2005, anno in cui li vidi in azione di spalla ai Sunn O))) in un impressionante live al Bronson di Ravenna. Torniamo, però, al qui ed ora e a questo Conquistador, un disco in (quasi) solitaria realizzato durante una pausa dagli impegni della band madre. Il quasi indica la presenza di due figure femminili al fianco di Carlson, ovvero Emma Ruth Rundle (slide e chitarra baritona) e Holly Carlson (percussioni), all’opera per affiancare un’esplorazione sonora che guarda dritta negli occhi la grande frontiera e attinge a piene mani dallo stile di Cormac McCarthy nel descrivere il sanguinario sterminio dei nativi nel libro “Blood Meridian” (da noi “Meridiano di Sangue”), per raccontare in note la vera storia di un conquistador e del suo ventennale viaggio nella parte nord del Messico (oggi New Mexico, Colorado, Utah, Nevada e Texas) con lo stesso spietato disincanto e la capacità di riportare alla mente un immaginario a dir poco alternativo rispetto all’usuale idea del vecchio West tanto caro a Hollywood. Conquistador sta ad Hex come le praterie stanno a un trailer park, come appunto il racconto di McCarthy sta alla prima stagione di True Detective e questo chiude il cerchio di un’America che si spoglia della sua tronfia epica della grandezza ritrovata per mostrare la ruggine e la polvere, le ferite e gli spazi vuoti, proprio come quelli che ritornano nella scrittura di un Carlson che spinge ancora oltre le geniali intuizioni di Hex. Ecco, probabilmente questo è il disco degli Earth che avrei voluto ascoltare e che oggi riesco ad apprezzare in ogni sua sfumatura tanto più quanto più a lungo è durata l’attesa. Nulla da dire su quanto fatto negli ultimi dieci e passa anni dalla band madre, ma considerare questo album come un semplice riempitivo in attesa della sua prossima uscita sarebbe a dir poco un errore madornale.