Due dischi Kranky: Clinic Stars ed Earthen Sea
Nella mia vita lo shoegaze è sempre stato un dispositivo per sopravvivere agli inverni rigidi: una sciarpa, mai abbastanza calda, per difendermi dai cieli grigi e dall’umidità della Lombardia.
I miei primi contatti col genere sono stati con i My Bloody Valentine e gli Slowdive, comparsi, come da copione, in un periodo già di per sé uggioso, e meritevoli di avermi regalato sguardi diversi per osservarlo. Ancora adesso mi piacciono gli strumenti che si mangiano la voce e rimbalzano dappertutto, le batterie che sembrano registrate in cattedrali immense e tutto quell’attutire, quel dilatare di cui non sto dicendo niente di nuovo, ma che riporto ora alla mente per continuare a scriverne.
Only Hinting è un compendio stilistico immaginifico, evocativo, che sembra scritto tenendo un ipotetico manualone dello shoegaze sotto mano: ci sono i tempi in tre della title-track che ti prendono e ti portano in un vortice di freddo e malinconia, ci sono la voce eterea di Giovanna Lenski e i suoni in scala di grigio che drappeggiano paesaggi sfocati come la copertina. C’è un pensiero, c’è una ricerca, di suoni, testi e di intenti, che permea tutto il disco e lo rende vero e toccante per chiunque abbia bisogno di questo tipo di atmosfere, trasmesse con cuore e tecnica anche nei live. Manca il colore, certo, quello che si poteva trovare, per esempio, in Citrus degli Asobi Seksu o in certi momenti di Souvlaki, ma non discuterei una scelta stilistica che pare chiara già dalle prime note.
Ho ascoltato questo disco come avrei ascoltato le voci di chi tramanda qualcosa di finito da tempo, un’importante messa celebrata da nuovi accoliti, e ci ho trovato dentro tutta la me stessa di quegli anni: segno che la magia funziona, e il testimone è stato preso.
“She Won’t Come”, drappeggiata da synth e voci fluttuanti, “Kissing Through The Veil”, un pezzo che sarebbe stato bene anche in un disco dei Low (per dire quanto poi il confine fra slow core e shoegaze sia permeabile), la spavalda “Thoughtless” che chiude il disco in immersione, sono tutti pezzi che mi ricordano un periodo, ma soprattutto la mia più vera essenza in quegli anni.
Rimane l’impressione col passare del tempo lo shoegaze si sia inevitabilmente spostato di campo, passando dall’essere il racconto intimo di una generazione di ventenni all’essere il racconto fantastico della nostalgia di una generazione matura, in stato di perenne ricerca e conferma dei suoi miti.
Spero con forza che tutta la bellezza derivativa che sta in questo disco possa essere ancora un linguaggio vivo e vibrante per chi ci si approccia per la prima volta, e diventare un nuovo substrato su cui costruire. (Francesca Stella Riva)
Pare che Jacob Long, al momento di dare un seguito a Ghost Poems, abbia provato a re-immaginare il suo progetto Earthen Sea come se fosse stato un trio con pianoforte e non un solista elettronico in debito tanto con la Kranky, quanto col trip hop. Non so se qualcuno troverà qualcosa di quest’idea iniziale in Recollection, perché io – e non mi succedeva col meraviglioso predecessore – ci vedo soprattutto uno spostamento verso il downtempo (Kruder & Dorfmeister, Thievery Corporation) e in certi momenti persino verso gli Air, tutta roba che ascoltavo e aveva molti pregi, ma che secondo me è morta malissimo e definitivamente quando l’hanno annacquata per infilarla in pubblicità di biscotti o in brutti aperitivi. Questo mio pre-giudizio ha gravato molto sull’ascolto di Recollection, che però non è un album con cui proverei a vendere merendine e che non farei girare in un bar: due pezzi diafani e sognanti in sequenza come “Cloudy Vagueness” e “Abstract, Tell” bastano per mettermi a tacere, senza dimenticare la malinconia di “Another Space”, con un dialogo basso-batteria perfetto e commovente. Mi permetto di dire solo che è meglio conoscere già Earthen Sea per dare credito anche a Recollection e lasciarlo crescere col tempo. (Fabrizio Garau)