DREKKA, Ekki Gera Fikniefnum

Drekka

L’americano Michael Anderson ha alle spalle quasi vent’anni di attività. Non lo conosco personalmente, ma ho idea che sia una persona mite e riservata, uno di quelli esteriormente sempre tristi ma con l’animo dolce e gentile, altrimenti come spiegare la sua presenza in una band ethereal-shoegaze come i Lovesliescrushing? Ho volutamente atteso (scherzo, in realtà sono pigro) il termine del suo tour europeo, che ha toccato anche l’Italia (che a quanto pare adora, visto che ci torna spesso e volentieri) per scrivere due righe su Ekki Gera Fikniefnum. Il disco è uscito a febbraio per la prestigiosa Dais e personalmente rientra tra i migliori ascolti di questo 2014. Non è presunzione e non sono stato pagato, mi è piaciuto davvero, desidero condividere – parola bellissima ma usata malissimo – gioie ed emozioni. Prendetelo come un personale omaggio natalizio.

Le tracce sono state realizzate tra il 2009 e il 2010, con in testa le note fruttate di una buona birra trappista a creare un’ atmosfera surreale, immaginando passeggiate tra i canali di una Gent medievale e misteriosa e patendo il freddo pungente di un’oscura Reykjavik, e bisogna ammettere che le due città (quella belga la conosco) sembrano avere influenzato parecchio la composizione. La sua bravura, questi contesti e gli ospiti d’eccezione: non poteva che uscire un piccolo gioiello. Il giusto equilibrio tra il noise (quello centellinato e mai fastidioso), l’ambient (immaginate quella eterea e sognante), il drone (quello sofisticato) e il folk (quello che lacera le budella). Tutta roba che – talmente carica di calore e passione – riuscirebbe a saldare la placca tettonica europea con quella americana, quietare i lamenti sulfurei dell’Eyjafjöll e trasformare in un’immensa distesa verde il ghiacciaio Vatnajökull. Nella stupenda performance vocale di Annalies Monseré in “Go From My Window” si raggiungono le stesse vette di sofferenza e marciume di “Prince Of Lies” di Cindytalk, mentre nella granitica (nel senso che taglia e lascia ferite aperte) componente ambient della traccia-titolo, siamo su livelli himalayani, piccole perle che non stonerebbero all’interno di Cities Of Fog di Jeff Greinke.

Non so, dicono che non sono mai allegro, ma in tutti gli ascolti ho trovato sempre la stessa ossatura malinconica. Qualcosa che non so spiegare, qualcosa simile a un gigantesco e solitario iceberg che, nel viaggio suicida verso l’equatore, sciogliendosi lentamente, rilascia scorie e tante lacrime di disperazione.