DØDHEIMSGARD, A Umbra Omega

DHG-

Otto anni dopo Supervillain Outcast. Sedici dopo 666 International, nel quale cantava Bjørn Dencker (Aldrahn), oggi di nuovo in una formazione guidata come sempre dal chitarrista Yusaf Parvez (Vicotnik). I Dødheimsgard tornano e – come i Mayhem l’anno scorso – ridimensionano un fracco di gruppi più giovani, anche quelli americani che vanno tanto di moda in questi anni. Per quanto siano universalmente riconosciuti come un progetto coi controcazzi al di là delle preferenze personali (per molti sono troppo eccentrici… di un’eccentricità fine a se stessa), penso che nessuno si aspettasse un disco di questo livello, quando tutto sembrava ampiamente finito. Curiosa, a proposito di lunghe pause e di ristabilire le gerarchie, la ricomparsa pressoché contemporanea degli Arcturus, altro progetto di rilettura provocatoria del black nato negli anni Novanta. Forse tutto questo non è un caso.

Yusaf e soci non vogliono più strafare con l’elettronica (l’uso è controllato, molto atmosferico, ma soprattutto efficace), tanto ormai s’è visto e sentito di tutto, e del resto non stiamo parlando di una band manierista e democristiana, che sceglie di ripercorrere i propri passi, persino quando sono passi che nessun altro sa fare. Ormai più che adulti, i Dødheimsgard mettono la loro complessa/composita esperienza al servizio di un album disilluso, triste e pessimista: nel celebre cassetto avevano ancora manciate di riff black metal devastanti e li hanno riversati su tutto A Umbra Omega, che alterna questi attacchi furiosi a parti più riflessive e solo strumentali (anche acustiche: chitarra quasi folk e il piano, uno dei loro vezzi storici), nelle quali i più vecchi troveranno un po’ di prog, un po’ di jazz e un po’ di quello stile di altre band disallineate  (e a loro imparentate) come Virus e Ved Buens Ende, istradato dal lavoro molto buono della sezione ritmica. Non bisogna dimenticare Aldrahn, che tiene banco in modo molto teatrale, tipo Dario Fo col face painting, una cosa scritta per ridere che un po’ è anche vera, nel senso che è un’interpretazione talmente sopra le righe da richiedere una specie di sospensione dell’incredulità per procurare il massimo godimento. Tra l’altro, i testi che di fatto recita, scritti da Yusaf o da lui stesso, sono fondamentali per capire la natura allo stesso tempo disincantata e violenta di questo disco.

In sintesi: pochi pezzi molto lunghi, non subito masticabili, che non sono frutto di sola improvvisazione, ma nemmeno il risultato di un disegno rigido. Bisogna pensare a quei pugili che, dopo averle prese e date, alla fine dell’incontro tirano fuori energie nascoste (magari scientemente conservate) pur buttare a terra l’avversario, sempre imprevedibili e in un certo senso belli da vedere: sentite in che modo chiudono il primo pezzo “Aphelion Void”, con un’ultima corsa a perdifiato come se volessero morire, con una frase che qualunque randagio/irregolare vorrebbe veder scritta sulla sua lapide:

There is a place called reality
Hidden to all men
You can reach it through insanity
But never to return again

Con ogni probabilità alla Peaceville si stanno applaudendo da soli. Fino ad ora il 2015 non mi ha offerto di meglio.

Nota a margine: A Umbra Omega, come da unica tradizione vigente in casa Dødheimsgard, è passato per il mastering di Tom Kvålsvoll presso gli Strype Audio, che sono stati anche la casa degli Emperor e di molti altri nomi grossi della scena black metal norvegese. Pazzesco come ancora oggi uno se ne accorga subito, non appena il suono comincia a trascinarlo via.

Tracklist

01. The Love Divine
02. Aphelion Void
03. God Protocol Axiom
04. The Unlocking
05. Architect Of Darkness
06. Blue Moon Duel